Metro: quartine di endecasillabi piani con rime incrociate ed alternate
S’addensano le nubi sulle sponde,
la notte, tremante di lampi e brezze,
scivola sulle acque in lievi carezze.
E’ un’elegia la voce delle onde.
Cammino malinconico. Un tuono:
di colpo la pioggia rimbalza sul fiume
turchino, fra le querce e le brume
bisbigliano le stelle. Perché sono
qui? Perché m’attrae il buio percorso
da folgori e singulti di civette?
Perché non ha meta il percorso
di queste orme stanche, neglette?
Dieci anni… Oscillano i cerri,
obliqui gli scrosci piegano i rami,
mentre i pensieri dileguano in sciami
e pare un senso arcano si disserri
nell’eco liquida del temporale,
tra le folate che scrollano i pini
aggrappati all’immenso crinale
del cielo. La siepe dei biancospini
occhieggia, le bacche rosse e lucenti,
profuma l’aria di prugni e ricordi,
gocce e fronde arpeggiano accordi,
tessono melopee trasparenti.
Adagio la nuvolaglia si dirada,
ora spiove e timida la luna
sorride. Non io, la mia fortuna,
ancora e sempre ignoro la strada.
Su questa terra
dove le mura di cemento s’innalzano
verso la libertà
io sono cresciuto.
Quel deserto di dune in movimento,
di granelli che volano liberi io sogno.
Ma sono caduto nella falsa libertà dell’amore,
con mattoni di nodi e catene
di amore simulato
che frenano i voli della libertà.
Nessun carceriere,
niente sbarre ne catene,
ma i pensieri reclusi
non trovano il consenso.
Il tempo scorre senza valore
e la luce della libertà non vedo.
Ma nell’orrore della prigione
il mio spirito è vivo
e la libertà inseguo.
Mamma,
sulla tua bocca l’universo
accende un quaderno di parole,
sbottona corolle di margherite,
profuma di mille stagioni.
Un figlio ricama
i confini del tuo cuore,
siede accanto a te
fra i tuoi mille pensieri,
ti emoziona l’anima
come una piccola farfalla
sul ciglio di un crepuscolo.
Mamma,
sulla tua bocca l’universo
posa sillabe di stelle
e tutto il suo amore per te
in un abbraccio senza tempo.
Terzine di settenari a rime incatenate.
Chissà se ti ricordi
d'un tuo sfigato amico
del mondo vivo ai bordi
che già in un tempo antico
rimase fulminato
(lui semplice lombrico)
dal tuo sguardo fatato,
dal tuo dolce sorriso
che il cuore m’ha stregato.
Chissà se un qualche avviso
di questa mia passione
sia giunto mai e irriso
poi dalla tua ragione…
tu che m’appari dea,
fantastica visione
che mi lascia in apnea
col cervello confuso
che sogni in fretta crea
tenendo il becco chiuso
per consapevolezza
che rimarrei deluso…
non sono alla tua altezza.
08/05/2025
Oggi la stanza è a cielo aperto
Ostile danza la vita
tra bulbi succhiati
Indifferente l'aria al petto
squartato
Impari la scaltrezza del corvo
e della gazza
uniti insieme a banchetto
Nemmeno la leggerezza del volo
Abbiamo corpi di carta
Tutti ci assorbe la pioggia.
Metro: tre strofe saffiche con rime alternate ABAb
Chi saremo, quando le nostre cellule
saranno di altri? Pochi scabri versi
a dichiarare la fine. Libellule
fragili, persi
gli anni migliori. Dove cadremo,
le mani aggrappate a spuntoni
di rimpianti? E già tremi e tremo,
mentre i rioni
si scontornano nel cieco biancore
di un’alba attonita. Tra le chiome
sfrondate delle nuvole, si muore
senza più nome.
Come si dovrebbe rintracciare da questo timido e costretto nascondiglio terrestre la miracolosità della immaginazione, il grande teatro della mente che niente ha da invidiare ai milioni di galassie così mostruose e antiche da essere senza un tempo concepibile? Le merci d’oro e seta che di notte si filano in sogni, chissà da quale profondità emergono? L’incommensurabile grandezza degli istinti che prima di esprimersi si mediano e si annodano in un lavorio sconosciuto, ma permanente, per renderli compatibili, gestibili, persino reprimerli.
Per fortuna abbiamo un limite in numeri decimali incompatibile con l’eternità, con la saggezza, con la pazienza. La vita è un colpo di tacco, un sorriso appena accennato, molto meno del brivido di un continente. Io, per esempio, temo qualsiasi tipo d’amore semplicemente perché soffro del tempo che non ho, dell’impossibilità di poter solo dare alcuni cenni esterni di chi io sia se non come sintesi approssimativa. Di lei, qualsiasi lei, temo di non poter andare oltre ad un profumo, ad una lacrima, per non parlare di un bacio. L’ho baciata? Certo, infinite volte, ma se dovessi raccontare cosa accade quando si conclude un bacio non potrei farlo. Il troppo presto è capace di uccidere tutto il bacio. La fine! La fine cancella sempre l’inizio e il durante!
Sai di me, sapete di me, tutto il possibile che può conoscersi in un attimo, nient’altro. Io di me so qualcosa in più di voi, ma poca cosa. Mangio, bevo, dormo, rilascio cose già utilizzate, faccio sesso, ho potuto contribuire alla riproduzione. Tutto qui? Si, tutto qui! Il resto è fantasia, immaginazione, sogno, istinto. Sono io il proprietario di tutto ciò? Si, ho questa incombenza e responsabilità. Cioè posseggo un cosmo infinito che non sono in grado di conoscere né, ovviamente, di utilizzare e gestire al meglio.
Mi fa piacere che qualcuno abbia indagato la relatività. Grazie! Ma sono, siamo ben altro. Siamo la parte meno evidente e meno indagata dell’infinito. Siamo relativi a noi stessi!
La nostra relatività è infinita e inconoscibile. Si, certo, posseggo abitudini, modi, sistemi, comportamenti, ma al primo soffio di vento d’anima lasciano il posto ad altro. Quel qualcosa tra il grandioso e l’infimo, tra il miserabile e il degno. Credo che chiunque abbia parlato, nel corso di migliaia di anni (poeti o religiosi che siano stati), di inferno e paradiso cercasse disperatamente di andare al centro della nostra miseria. Abbiamo un’intelligenza, grande o meno grande che sia, adatta ai particolari, ai piccoli accadimenti, alle piccole scienze. La grande scienza che dovrebbe indagare nei meandri della immaginazione, dei sogni, degli istinti, della fantasia non sarà mai a nostra disposizione. Per fortuna io credo, altrimenti non potremmo sopravvivere a questa conoscenza.
Chi scrive dovrebbe essere obbligato a cerchiare in rosso i propri passi nel mondo per non perdersi. I passi fisici e quelli su carta. Chi scrive dovrebbe chiedersi, maledizione, quanti di questi passi sono veri e quanti quelli falsi. Molti si accorgerebbero di non essersi mossi di un millimetro. Niente che si scriva, come nessun viaggio è reale se non è macchiato dall’istinto, se non porta con se tutte le caratteristiche di un sogno ancora da fare mille volte in una certa notte, in un certo anno, in un certo letto ben scelto per una nuova amante, in un ultimo bicchiere d’alcol che ti porti dove non sei stato ancora.
So che i grandi, alcuni grandi scrittori, hanno scritto sapendo bene dove stavano portandoci. Altri, impasticcati di presunzione, sono grandi solo per alcuni salotti di velluto consumato. Scrivono solo per onorarsi, per cospargersi di brillantina senza ungersi le mani. Scrivere è un mestiere che sporca, che uccide, che respira d’ossessioni, cerca spiragli d’aria dove l’aria non c’è perché se vi fosse stata Joyce non si sarebbe occupato di Ulisse, Dostoevskij non avrebbe conosciuto i Karamazov e Majakovskij – il più grande - sarebbe morto centenario. Certo, scrivere non è mai innocuo, e di questo ringrazio Dio o qualsiasi altro Dio che voglia prendersene la responsabilità.
Tu che sei in un mondo
così lontano
e più ti penso
e tutto è così strano
nella mia mente
ci sei sempre tu
in primo piano
nelle giornate che fuori piove
oppure quando c'è tanto sole
e non ho voglia di parlare
nelle stagioni che cambiano
nei miei sorrisi
che fingono gioia
e tutto scorre come un fiume in piena
è una tempesta dentro il cuore
ed il tempo è come un pugno nello stomaco
che fa tanto male.
E penso anche a te
amore mio così lontano
che tocchi le stelle con le mani
e sarà dura così
fingere di stare bene
e pensare, pensare
osservando il cielo
che cambia i colori
nelle giornate che fuori piove
e con il sole che sembra smarrito
non ho proprio voglia di parlare
solo di pensare anche a te.
addó nce truove sempe 'o ddoce.
Pe 'e figlie suoje se jettasse 'int'ô ffuoco,
ogni gghiuorno s'abbraccia 'a croce.
È na cuperta ca d' 'o friddo te cummoglia.
È nu nivo d'ammore ca cunforta e accoglie.
Mbraccio a essa truove sempe calore,
si quaccosa te fa male, te passa 'o dulore.
È 'o rifugio addó truove riparo si chiove.
È 'o cappiello ca te prutegge da 'o sole.
È 'a sciarpa ca d' 'o ggelo te cummoglia...
è 'a rosa c'arrepara 'o bucciuolo c''a foglia.
È 'a voce ca te rassicura si tiene paura.
È 'a mana ca t'accumpagna 'int'ô scuro.
È 'a saputona ca mpruvvisa nu mestiere,
pe te leva d' 'a capa 'e bbrutte penziere.
È cchella ca quanno te vede 'e suffrì,
te vulesse straccià 'o mmale 'a pietto.
Desse ll'anema pe 'e figlie suoje,
pe lle dà sempe riparo e arricietto.
È 'o passo ca te sustene pe nun te fa' cadé,
vulesse sta pe ttuta 'a vita accanto a tte.
Pure quanno se nne va e nun ce sta cchiù,
tu 'a chiamme: "mammà, aiutame tu."
Pe spiecà bbuono che d'è na mamma...
nun abbastano tutte 'e parole d' 'o munno.
E si t'addimannano: che d'è 'na mamma?
dice: " 'a mamma è 'a mamma!" E rispunne.
Il bianco è veramente il colore della morte, nella sua vuota, accecante, impudica oltranza.
Metro: quartine di endecasillabi con rime alternate (ABAB; CDCD...)
Forse eri me in un vuoto anteriore
e cedevo alla luce che l’estate
calcina sul litorale. Ardore
e carne la tua anima, le giornate
trascorse a contare le onde calme,
strappi di canzoni dalle autoradio,
i bagnanti stesi al sole, salme
dove appena fermenta un po’ di tedio.
Andavi tra l’erba e i cocci. Verde
pallido il cielo fuso nel mare,
nella cavea della notte si perde
il ronzio di pianeti e lampare.
Il tempo metteva radici nell’asfalto,
in ogni istante vivo assaporavi
la morte… Poi in un soprassalto
ti svegli, gli occhi sbarrati, scavi
il segreto, cercando i suoi fianchi.
La camera è vuota e sulla tenda
l’ombra si sfalda in palpiti bianchi.
Non ti appartiene più la vicenda
degli uomini, si smaglia la trama
della vita. Sei libero, lontano.
Ora dabbasso qualcuno ti chiama,
ma tu affondi nel nulla, piano piano.