Quel giovin non son più nel novecento
solitario poeta nel mio mondo,
cantor silente sol per me facondo
senz’eco d’un fuggevole momento.
Or cammino movendo cauti passi
a tentoni giocando a mosca cieca
e l’anima consegno in ipoteca
ad angeli e talora a satanassi,
a lettori ed autor che non conosco
dei quali ignoro il volto e la dimora
cui, come avessi eterëa Interflora,
invio fiori raccolti nel mio bosco.
Le parole che affido a cotal vento,
frecce o carezze ch’ho lanciato in cielo,
evanescenti in quello che rivelo
in gioia, indifferenza, o in un lamento,
corron per questa che mi par magia,
un virtuale ch’è pur tempo reale
e pei sentier di tanti cuor risale.
È avventuriera oggi la poesia,
per me che mi ritrovo attor di scena
istrïone dal volto mascherato,
perché ad affabular m’ha affabulato
qual luce che ha ammaliato una falena.
Viviamo istanti deviati
oltre le leggi di tendenza
oltre gli istinti
socialmente smussati
e non possiamo innamorarci
liberamente
veicolati come siamo
da criteri di mercato
da modelli patinati
da impulsi plastificati.
Incappucciamo scelte
e sovente le impicchiamo
per una fame artificiale che mai
riusciremo a soddisfare
ponendoci su piazza, spiazzati
dalla nebbia tra le idee
nebulosi grovigli
di dubbiose certezze
per essere
solo copie conformi a vacche
non sempre … solo da latte.
Rientra in te
il cuor ti reclama
a coscienza pone obiezioni
che s'infiamma
e dentro … bruci.
Ancora, dai!
E batti le mani per
Il tuo idolo
E strappati i vestiti!
Clap, clap, clap!
Eccolo, parla!
Senti la folla,
Senti che boato!
Clap, clap, clap!
"Oh quanto è bravo,
Oh, quanto è bello!"
E clap e clap e clap!
E poi ci sei tu
Che altro non sai
Che fare clap,
Che altro non sei
Che uno spettatore
E fai clap, clap e ancora
Clap, clap, clap!
E nella folla
Ti perdi
E altro non sei che
Clap, clap e clap...
Anime nel vento
bruciano come le ferite della storia,
son lembi di pelle scuciti
dai cieli della vita,
numeri tatuati d’orrore
su bozzoli di scheletri appassiti.
Il cigolio d’un vecchio vagone
è il triste carillon del terrore,
la morte s’aggrappa ai fili spinati
in un grido affamato di dignità:
ecco l’inverno più buio
del respiro dell’umanità.
che non ti dico
a parlare in panchina
solo un ricordo d’amico
vado sulla passeggiata
infagottato
come un passero
dal freddo intirizzito
entro al caffè sul viale
altre nuvole in testa
vapore in tazza
una tisana farà bene
nessuno parla
gioco a bigliardo
con palle rotte
già di mattino
figurati tutto il giorno
a gettoni e bigliardino
quando torno per pranzo
è tutto spento
però la casa è accogliente
e sul divano
m’aspetta fedele
il silenzio
compagno di stanza
poi salgono certe ombre
dalle scale
anche loro diafane e digiune
così ci beviamo insieme
calici in abbondanza
giusto una paglia
la sera è fatta
alla stessa ora
ascolto la vecchia
sullo stesso piano
a portare la monnezza
e nella toppa sempre a girare
una chiave sbagliata
come del resto
ci passo le notti
a far scattare la serratura
d’una vita bloccata
Un gomitolo di battiti
rannicchiati nel fumo
albeggia straziato nell’aria
in un saccheggio di volti anonimi
deportati dalla folle ideologia
di storie senza più memorie.
Tremano i disegni del disprezzo,
Auschwitz è un cielo di filo spinato,
un’atroce fabbrica dell’odio,
un’indelebile nevicata di morte,
l’inciampo imperdonabile dell’umanità
scolpito sulla pelle dei pochi sopravvissuti.
alitando condensa sui testi in ghisa;
quei minuti strani di niente, prima di rifare tutto,
misureranno la stanchezza
di orgasmi nell'euforia spianata.
Sarò lì: scampata, per un altro soffio,
un'altra mezza dittatura,
a pulire i cocci rotti da qualche ubriaco
che finalmente dorme.
Tremeremo a quel crepuscolo.
Sarà il più bel momento senza emozioni,
prima che tutto vada meglio
senza il privilegio di percepirlo.
Al rogo delle umane follie
il fumo sarebbe di colore scarlatto
al pari di quel sangue versato
da chi, vittima di guerre insulse,
non sa o non può mai ribellarsi.
La furia dei venti alla deriva
devasta la terra dei cuori migliori
ed infinito lo sdegno si solleva.
Ma tutto accade quasi sottovoce.
È protesta soffusa, non rivolta.
Cercando spazi non contaminati
dai presunti poteri dei re abietti,
nel viaggio sconfinato per la pace
persino la ragion s’affida al sogno.
Anche al miraggio, ove servisse.
in un labirinto di cristalli
dove il calore
è un miraggio
I vicoli desolati
abbracciano i marciapiedi
in striduli lamenti
mentre l'asfalto si trasforma
in un lago di vetro
Alberi spogli
carichi di brina
note ghiacciate
che cantano nel vento
Sguardi perduti
dove ogni sorriso
è un eclissi
mentre le forme
si dissolvono
Esistono altri giorni, amore mio?
Sai, quei giorni presi in prestito al mattino
usati fino in fondo e consumati,
vissuti come fossero un regalo,
non scritti in nessun altro calendario,
giorni privi di nome e di futuro.
.
Giorni nostri, dipinti di passione,
privi di ore, senza giorno e notte,
fatti di tempo che non è trascorso,
senza ricordi, senza investimenti,
lontani dal passato mille anni.
.
Eppure nostri più di tanti altri,
eppure vivi, eppure scritti a fuoco,
nel luogo più profondo della terra,
in quella grotta dove si conserva
la storia scritta dell’anima del mondo.
E’ metafora in ver, vien dalla mente
ché il cuore, benché evochi l’amore,
è sol pompa che va ritmicamente.
La mente è psiche, fonte d’emozione,
e pur se dà dimora ai sentimenti,
non esclude un appello alla ragione
senza cui poësia vive di stenti.
Un dì fu scritto il “De rerum natura” (*)
poema didascalico latino,
quindi dico “non è l’uva matura” (**)
alle volpi che alzando un lor ditino
ritengano spocchioso il poëtare
su legittime ipotesi scientifiche
che crëazione voglian confutare
mediante descrizioni immaginifiche
tradotte in versi, ch’abbiano sfiorato
una questione antica quanto l’uomo,
punto crucial: Essente oppur Creato?
Un tema che richiederebbe un tomo
senza giunger poter a soluzione.
E della vita analogo mistero:
abiogenesi e quindi evoluzione
o tutto per divino magistero?
Di appassionare tutti non mi aspetto
né ch'esser possa “poetico” inteso
quel profondo sentir dell’intelletto
di fronte al grande enigma a noi sotteso.
(*) Tito Lucrezio Caro, primo secolo a.C., poeta e filosofo epicureo.
(**) La volpe e l’uva, celebre favola di Fedro “…vulpes… uvam appetebat...quam tangere non potuit, descendens ait: ”Nondum matura est, nolo acerbam sumere".
In navigazione tra docili bufale,
inondato da ingannevoli fake,
al largo di un personal web
allargo la rete con un social net
la realtà sempre più distorta,
piattaforme dolci fette di torta,
post virali e simulazioni virtuali,
ali per volare ali per cadere
la guida sicura senza mani,
nel frigo la lista per la spesa,
spera l'uomo nell'intelligenza artificiale,
spira l'umano nell'artificiale intelligenza.
Con le lacrime avrei riempito il Nilo,
Ricordando quando ti accompagnavo,
Lasciandoti della solitudine ero schiavo.
La porta è sempre la stessa,
Par di veder sul vetro te riflessa,
Cerco la bidella per condivider emozione,
Ma mi dicon che dall' anno scorso è in pensione.
Non è cambiato quasi niente,
C'è qualche bambino che corre innocente,
Mentre tu ora sarai sul tuo sellino,
A scorazzar in città sul tuo motorino.
Esco allora dal cancello sconsolato,
Varco la sua soglia quasi senza fiato,
Ricordando quel tempo che fu,
E che ahimè ormai non c'e' più.