- Sì, confermò Alessio. Almeno una volta si poteva contemplare un’alba abbellita da cumuli vaporosi e da colori pastello, rosa e celeste. Oggi, anche quando mi sveglio di buonumore – e succede rarissimamente – subito m’inalbero.
- Avete ragione, intervenne Filippo, però ormai non dico che sono, siamo assuefatti, visto che viviamo, anzi vegetiamo nel peggiore dei mondi possibili, intendo che, se solo non fossi depresso e capite che cosa intendo, perché anche voi sperimentate questo micidiale malessere, riuscirei a sopportare quasi tutto, persino di essere intossicato, invece…
- Verissimo, confermò l’amico, la disforia è un macigno che grava sulle terga, invisibile ma ponderoso.
- E’ così! Rincalzò Duccio. Altro che! E’ un peso sul groppone, ma pure sul petto: ti schiaccia, ti soffoca, ti uccide.
- Non abbiamo via d’uscita, dichiarò scoraggiato Filippo.
- Avessimo un appiglio, la fede, ad esempio! Sennonché il Cristianesimo è un’illusione. L’altro giorno sono andato alla messa per il funerale di un collega, morto a seguito di un malore improvviso. Giovane, poveraccio. In chiesa tanta gente: i parenti, gli amici, i colleghi. La bara col cuscino, la corona di gigli bianchi. Il sacerdote ha pronunciato un’omelia sobria, ma non so spiegarlo bene: sentivo che mancava qualcosa, ecco mancava proprio un afflato spirituale, la fiducia nella resurrezione o nell’immortalità dell’anima. Mi è parso un rito dignitoso ma laico, un tributo quasi formale ad uno dei tanti che di botto scompaiono dalla scena, come i personaggi secondari di un teleromanzo che a un certo punto, per esigenze di copione, il regista fa sparire “ex abrupto” e gli spettatori quasi non se ne accorgono.
- Ormai molti sacerdoti sono semplici impiegati dello Spirito santo, la Chiesa è diventata un’organizzazione non governativa, la società è secolarizzata, si dolse Alessio.
- Non mi stupirei se alcuni uomini di Chiesa fossero atei o agnostici, osservò Duccio.
- Può essere, ma forse semplicemente non pensano a Dio: miscredenti ed agnostici si pongono il problema, loro no. Vivono superficialmente, come la stragrande maggioranza delle persone che ci circondano, sottolineò Filippo. A noi almeno resta il rimpianto, l’anelito, il senso di una perdita incolmabile: per questo, quando vado a dormire, nel letto ripeto una specie di preghiera, in realtà una geremiade rimata: “Gesù, perché non mi ami più? Dio, perché mi hai confinato nell’oblio? Angelo custode, perché sono qui dove la tua voce non si ode?
- Un appiglio, riprese il Toscano, la fede o l’arte. Almeno voi due scrivete: tu Filo, sei un filosofo e componi aforismi e brevi saggi, te - scusa tu - Ale, sei un romanziere… A mala pena io so firmare col mio nome e cognome. Sono un fattorino, un proletario senza prole, senz'arte né parte, un fallito infelice e scontento.
I Dioscuri non risposero: capirono che qualsiasi parola di conforto sarebbe suonata inopportuna. Il silenzio è rispettoso. Provarono persino vergogna, imbarazzo per quel piccolo a volte controproducente privilegio concesso loro, cioè la possibilità di tallonare, per mezzo dell’espressione estetica, un inesistente senso o un’inattingibile catarsi di fronte ad una realtà dilaniata dal Male, un Male che divorava qualsiasi speranza.
Lo sguardo dei tre sodali fu attratto da una scena fuori dalla finestra: un gruppo di storni drappeggiò un opaco spigolo di cielo. Era simile ad un sudario con cui pie donne avvolgono una salma.
0-51
Il principe di un regno molto vasto era vedovo, e amava molto il suo unico figlio, che aveva tre anni di vita.
Una notte, prima di addormentarsi, vide apparire nella sua sontuosa camera da letto, adorna di tutti gli oggetti più piacevoli alla vista e all’olfatto, un diavolo femminile nero come l’ebano.
La diavolessa gli disse che era invidiosa dell’amore che portava al figlio, pertanto avrebbe trasformato il bambino in un serpente.
Disperato il principe corse alla camera del bambino e nel minuscolo letto rosso trovò effettivamente un orribile serpente.
Terrorizzato uscì in fretta dalla camera, ma un pensiero, ancora più orribile di quella vista, lo paralizzò.
E se suo figlio avesse avuto bisogno di lui, del bacio della buonanotte, di una carezza, e si fosse sentito abbandonato dal padre? Se avesse notato il disgusto sul suo viso cosa avrebbe provato, il piccolino?
Una compassione infinita sorse allora nel suo cuore di padre, simile al sorgere della luna piena in una notte profonda, tornò nella stanza e baciò il serpente, facendosi forza e superando ogni orrore.
Con il passare dei giorni il principe si abituò alla vista del serpente, se ne prendeva cura con grande affetto e lo nutriva con i cibi più adatti.
Ma una notte la diavolessa tornò e gli fece capire che la sua invidia non era finita, e che per distogliere dal serpente tutto quell’amore avrebbe trasformato il figlio in una vecchia malata di lebbra.
Il principe entrò nella stanza e fu sopraffatto dal cattivo odore e dalle sensazioni sgradevoli provocate del viso devastato dalla lebbra. Ma poi pensò al cuoricino del suo bimbo, a quanto aveva bisogno, ora più che mai, dei suoi abbracci, e con le lacrime agli occhi, simili alla discesa di un fiume miracoloso in una terra deserta, abbracciò e baciò la lebbrosa.
Passarono molti giorni.
La diavolessa produsse mille altre trasformazioni, mettendo alla prova il cuore del principe, ma ogni volta il principe continuava a prendersi cura del figlio trasformato, senza alcun indugio, fermo come il monte Meru, impassibile come il Kailash percosso dai venti.
Venne il giorno di una grande festa religiosa in cui nel paese si danzava e si recitavano preghiere in onore della Madre Divina.
La Dea era stata innalzata in mezzo alla folla e il principe si affacciò alla finestra e si mise a pensare, contemplando lo spettacolo di tutti quei volti e di tutti quegli animali radunati sotto di lui. “Ecco”, rifletteva, “se anche mio figlio si trasformasse in uno qualsiasi di loro, o perfino in un albero o in quelle pietre illuminate dalla luna, o in un filo d’erba, invariato sarebbe il mio amore. Esso è diventato fermo,immutabile ”.
E con le lacrime agli occhi si sentì riempire di un amore infinito per tutti i membri di quella folla piena di sofferenze e di fatiche.
“Sono tutti miei figli”, sussurrò a se stesso.
E quell’amore divenne così intenso da cancellare ogni sua minima sofferenza, per sempre. Non vi era più spazio nella sua mente per il dolore, dato che ogni angolo era occupato da quel sentimento di amore incondizionato.
All’ improvviso sentì una presenza accanto a lui: era la diavolessa.
“Hai capito ora?” gli chiese lei con un sorriso che era, strano a dirsi, meraviglioso, come la musica di una veena celeste.
Lo stupore del principe germogliò nei suoi occhi: il volto nero della diavolessa non era affatto diverso da quello della statua della Madre Divina che campeggiava tra la gente.
Il principe si voltò e dopo un lungo sguardo le disse:
“Sì, Madre, ho capito. Ora sono come te”
L'asservimento bovino del
bisonte muschiato nord-colombiano
alla gogna mediatica maremmana
tardo gotica, fomenta una discrasia psichedelico agroalimentare nei pascoli
foraggiferi del basso Lazio,
compenetrando l'habitat del
procione di Tasmania con
l'avifauna specifica del deserto
del Gobi, con ricadute evidenti
sulla setosità raffinata dei cappotti di cammello della Maison Dior.
A tal risultato si aggiunga pure che l'epistassi romanocentrica barricadiera, giunta a volo radente, potrebbe trasformarsi inesorabilmente in una volèe incrociata destroconvessa, degna della migliore milonga Argentina, provocando altresì una catarsi monoclonale proteiforme di spiccato coinvolgimento militaresco austroungarico, decisamente insurrezionale durante il solstizio d'estate.
Olè!
Sono un piacevole piacione di Piacenza
poco portato per il Pilates e, purtroppo, preferisco i piaceri della tavola, tipo i paccheri alla puttanesca, il polipo con patate, il pollo alla paprika con profumo di provola, il prosciutto di Praga, i profiteroles senza polifosfati e una bella pinta di Picolit.
Amo poi il passato di pomodoro, il passito di Pantelleria, i peli di puzzola pretrattati al polonio, il paso-doble, le pesche alla Pompadour, le pizze a pezzi, i piatti di porcellana e i giochi di palla prigioniera.
Sono anche un populista poco policitizzato, amo pescare il pesce palla con la paranza e a volte mi piace postare sui siti porno i peli del pube del Pibe de oro. Poi sono propenso alla poligamia, mi piacciono le polinesiane con ai piedi le pedule, le padelle in pirex, i pon-pon in piume di pavone, le pere passacrassane e i porta pillole in porcellana e pirite piroclastica…però! sono proprio particolare!
Petali di petunia a tutti! Prosit!
La misi in gabbia ,metallo lucido ,decollata .
Onde ,onde ,onde ,
Oscillazioni e strisce di gocce ordinate che perdevano la presa si lasciavano sbattere al suolo.
Una scena orrenda ,tutto quel liquido che schizzava via e non un passante che facesse un solo gesto in mio aiuto.
Si' ,in aiuto a me che apparivo come boia e reietto.
dire " che atrocità!".
Il salasso ebbe fine ed estrassi da quella gabbia ciò che presto avrei fatto a pezzi.
Coltello a lama feroce , mano impavida e colpi discendenti per non dimenticare un solo lembo.
Pulita ,umida e croccante anche alle mani,mentre tutti si coprivano gli occhi,e se dico tutti ,parlo di piccoli insetti,minuscole formiche ,un vermetto solitario verde ..tutti guardavano e piangevano senza cognizione .
Finito il vilipendio alla creatura morta ,prima viva , ne presi un pezzo e lo portai alla bocca ...Fresco, rumoroso ,sciapo e debole .
Questa testa di insalata non aveva più forma riconoscibile e decisi di farla finita con olio ...aceto ..sale..su tutte le ferite.
postfazione
Davanti alle caldarroste e al buon vino le chiacchiere riscaldavano l’aria Della Cannella al crepitio del fuoco.
Lobella e Arnica ancheggiavano in una danza spensierata e gaia mentre Adamantina si intratteneva con la locandiera.
Edgar sedeva a bere con Samaèl, a pochi passi da loro sulla sedia rivolta al focolare dormiva il lemure.
A terra, inosservato un tovagliolo mostrava una scritta
PICTA
Adesso so.
Quest’unica, singola volta proverò a dissuadervi dall’origliare il mormorio sommesso del mio conversare solo. E non negherò la nera ombra del mio interlocutore.
Non udirete uno straziato gracchiare, non un graduale miagolio. Né un soffio.
Ma lo sguardo di quella presenza.
(da L’autore del Tomo- secundo libro)
ringraziamenti
Cenni aranciati dal Canale Villoresi s'allungavano sul mare a quadretti, mentre perigli si perdean tra le cime del Roero.
Piano scioglieva la neve in coda di rondine. Intanto sul canavese giungeva ancora l'estate…
Cieli diversi sulla pagina autografa giacciono come gratitudine al lettore.
Un ringraziamento particolare va a “Benedetta” che ha seguito l’intera stesura.
sommario
Preambolo
Prefazione
Il cippo fuori Varsavia e la comparsa di Samaèl Propinquus (cap. I)
Samaèl Propinquus e il Palazzo sull’Acqua (cap. II)
Samaèl forse vi guarda dormire (cap. III)
Le ore si posano lente come fa la neve (cap. IV)
Errata corrige- Samaèl, il concepimento
Le dieci stanze (Tristezza e Iracondia. E Locus, l’ultima stanza) - cap. V
La seconda stanza (Avidità)- L’occhio dell’avido è profondo come l’inferno (cap. VI)
La terza stanza (Onnipotenza)- Sogno l’onnipotenza della scrittura, e poi scrivo il mio sogno (cap. VII)
La quarta stanza (Vanagloria)- Mangime per il proprio ego (cap. VIII)
La quinta stanza (Insaziabilità)- A cena con qualche rimorso, se pur non invitato (cap. IX)
L’ottava stanza (Ingordigia)- La fame è lo schizzo di una signora perbene (cap. X)
La sesta stanza (Gelosia)- L’unica cosa che gli angeli ci invidiano (cap. XI)
La settima stanza (Immobilismo)- In cerchio le foglie d’autunno (cap. XII)
-nel Medioevo si credeva che fossero peccati capitali anche tristezza e vanagloria
indice analitico
PERSONAGGI
-Adamantina, la figura vermiglia che custodisce il cuore di un angelo
-Arnica, la figlia adolescente di Lobella che conosce il latino
-Benedetta (Iaska), la locandiera
-Christopher, l’agente letterario
-Dis, Signore dell’aldilà
- Dozorca (Dyaus), custode al Palazzo sull’Acqua e marito di Lobella
-Edgar “Allan 17” , il camionista e contadino
-Famulus, il lemure ai servigi di Samaèl
-Gavri’el, l’anziano della locanda
-il fidanzato di Arnica
-il figlio di Benedetta, docente a Edimburgo
-il Nahum, la creatura demoniaca che conosce il passato e il futuro
-il padre di Edgar, mezzadro di là del crinale
-il Tiyanak, l’essere vampirico
-Joanne, l’autrice di Harry Potter
-la bambina dei wafer
-Lobella (Dortmanna), la romanziera
-Lucifero (Mefistofele) il maligno, il serafino caduto
-Samaèl Propinquus, l’ arcangelo caduto
-Zelo l’artigiano, marito di Benedetta
LUOGHI
-Hogsmeade, un paesino della Northumbria
-la drogheria del paese
-la locanda Della Cannella
-lo studiolo dell’autore
-Parco Lazienki con il Palazzo sull’Acqua, uno dei maggiori parchi pubblici di Varsavia che si estende su 76 ettari
-Statale intorno al km 13, è la Ujazdów Avenue un'importante via parallela al fiume Vistola che porta al quartiere centrale di Varsavia
-sul volo Varsavia-Edimburgo
liber primus

Caput duodecimum
La settima stanza
-In cerchio le foglie d’autunno
Condivido le giornate oramai da degli anni con un’ernia cervicale che mi tarpa le ali, un dolore lancinante come se qualcosa si lacerasse tra il collo e la schiena.
Come un’ala recisa, quando la notte il cielo di ardesia e gesso sul soffitto si scarabocchia di una nuova idea delicata.
Allora guardo l’orologio col timore che possa essere uccisa da un ticchettio o da uno starnuto, uno sbadiglio.
Solitamente viene spaventata dal movimento del mio sopracciglio sinistro, in tal guisa, con garbo nelle mani a conca la porto con me sullo scrittoio.
«Non siamo ancora alla fine»
“Ssht, la farai scappare… così sei nato anche tu”
«Quando i bucaneve alla finestra allungheranno i petali a conservare lo stato delle cose, la tua condizione ti sembrerà sprofondare nell’immobilismo sul foglio bianco della prima neve» Samaèl seduto all’angolo, sorseggiando il caffè oramai freddo
«…è allora che scriverai quell’ultima frase»
Nello studiolo niente altro che la capinera sul desktop che becca la cinciallegra. Nessuna mail di qualcosa di simile a una casa editrice.
È stato allora.
Non resistetti e aprii il tomo… con tutta la sua oscurità, e ne fui risucchiato.
Nell’enorme spiazzo di pietruzze accanto alla locanda, a pochi passi dal capanno un fazzoletto di terra. Non un albero, non un fiore neanche un filo d’erba cresce all’interno nei limiti del cerchio. Solo appassimento e morte che dal centro si espandono fino ai suoi confini.
Questa notte di solstizio d’inverno dal finestrino abbassato Samaèl osserva poco lontano, quando si apre lo sportello della Volga nera
«Non saresti dovuta venire»
<Non avresti dovuto permettermi di sentire i tuoi pensieri…>
«Benedetta, ascoltami bene. Porta via Adamantina, e il…»
<Sarà un bambino fortunato. Avrà due genitori che lo ameranno>
Sul sedile posteriore la bambina del crinale con la bocca sporca di wafer, in silenzio.
<Chi è lei?> Benedetta, salendo non l’aveva vista.
«E’ chi il lettore vuole che sia» tacendo il susseguente esergo in una smorfia.
«Io non so amare, non più…»
<Fa ciò che va fatto, e torna da loro. Imparerai di nuovo, col tempo>
Sentì il candore della neve nella carezza di lei.
Ora era davvero solo.
Un essere intonso camminando in circolo intorno all’anello
‘ Mi ecciterete da morti… Sentite di nuovo quel ru-mo-re?
Narratelo!
E indovinate… chi-è-mor-to? ’
I ratti del capanno a quella cantilena contavano le briciole di follia tra quelle di pane.
‘ Samaèl… non ti aspettavo.
Hai fatto bene a venire. Sai che faremo!?
Scompariremo proprio al centro del cerchio poco prima dell’alba.
In questa notte di luna piena mi pregherai di portarti con me all’inferno ’
Le foglie cadevano ai bordi del cerchio. Al centro come un bisbiglio dal capestro mosso appena dal vento, della forca nello spasmo d’un piede in fondo al tronco del figlio della locandiera.
Samaèl era inginocchiato, ricoperto dal fogliame fino al costato.
‘ Reprobi angelus… Non dovevi venire solo.
Mi man-che-rai da morto ’
«Non narro le cose. Narro solo le differenze tra le cose.
E non sono solo…»
Nella risata irridente di Lucifero c’era tutto il tormento di Samaèl.
«Adesso autore, scrivila adesso quella frase! »
Dalle pagine del Tomo, quelle ancora da scrivere
“Se sei lì seduto, come fai sempre quando non sono allo scrittoio…
Figliolo, torna poco indietro dalla quarta di copertina. Non mi arrabbierò, e ripercorri con la tua innocenza quell’unica frase sottolineata”
Leggeva senza comprendere, e senza comprendere con i suoi tredici anni obbedendo al padre scriveva
SOGNO DI SCRIVERE E POI SCRIVO IL MIO SOGNO
Un cilindro compatto e trasparente ingoiò Lucifero tra le foglie cadute.
Si chiuse il sigillo, qualcuno presunse per sempre.
Se abbandonassimo tutti l’idea di credere nel diavolo forse i cuori sulla soglia entrerebbero a rincorrersi con le anime felici, chiudendo la porta e restandoci per sempre.
Nel palmo di Samaèl la mano di Benedetta
<Alzati angioletto…> sorridendo al rumore del suo cuore
<…ora batterà come si deve>
Dove la statale di Varsavia profuma di cannella e zenzero, sul cippo del chilometro 13 un cappello plumbeo. Dal camposanto una lagna
Regge il fio dei giorni / per la tela tra le dita. / Pone sulla rocca il pennacchio, / filatrice della vita. /Uno due e tre Moire / Cloto non la puoi sentire.
Taglia con le fòrfici / quando giunge il momento / di arrestare la vita. / La tela si scinge al vento. /Uno due e tre Parche / Lachesi non la puoi capire. / Atropo decide quando morire
(in tomo immobilitas)
-----l’incipit nasce leggendo un pensiero di Charles H. Brower
-----la cantilena di Lucifero è un backmasking dei Beatles
-----le parole di Samaèl a Lucifero sono ispirate in parte
a una citazione di Henri Matisse
liber primus

Con l’ausilio della versione gratuita e vecchia (3.5) della più famosa tra quelle disponibili liberamente, quindi un livello tutto sommato basico.
Prendendo atto dell’andazzo attuale nel campo della letteratura, ma anche della musica, dell’arte in generale e della vita stessa, mi adeguo e capitolo alla moda finale di delegare i miei pensieri ad una sempre più pervadente e performante intelligenza artificiale:
io ioffa, di professione essere più o meno umano che tentava più o meno di affrontare una propria vita, delego ad Arty, di professione intelligenza artificiale, il compito di descrivere il mio pensiero, la mia essenza, le mie emozioni, i miei sentimenti. Userò una riga di cancelletti per separare le parti di questo capolavoro tra mie e sue.
Vai, Arty:
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… … … …
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Grazie Arty, ero sicuro che la mia profondità si sarebbe palesata grazie a te: hai sviscerato pienamente pensiero, essenza, emozioni e sentimenti, mi ci riconosco finalmente, a tutt’oggi ero un mistero per me stesso, ora so! Tuttavia preferirei che la composizione fosse in poesia, una bella quartina, non prosa, altrimenti non potrò passare per Poeta. Su, Arty, trasformami in Poesia:
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…
…
…
…
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Ah, ora sì, altro che Dante, Petrarca, Cecco, Leopardi, Foscolo e varie schiere angeliche e pietrame… questa sì che è Poesia, intima ed universale, che parla di me con me a me :-) Davvero aulica ed unica, originale, inimitabile, MIA!
Ed ora chiudi con la mia biografia, Arty, parla di me:
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ioffa, con la “i” rigorosamente minuscola, al pari della sua intelligenza che sembrava essere ancora di quelle primitive, cosiddette “naturali”, nacque nel secolo scorso. Sin da bambino si illuse di vivere e nel XXI secolo muore insieme alla sua illusione.
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Grazie, precisa e sufficientemente dettagliata, ma non troppo lunga da annoiare i lettori, hai fatto un bel lavoro. Ora però ti chiederei di esprimere un commento su questo lavoro, da riportare in esso, hai come limite 2.000 caratteri, vai Arty:
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Il testo gioca con un’ironia sottile e pungente, mettendo in scena un dialogo che in realtà è un monologo: l’“ioffa” che abdica al proprio ruolo creativo per consegnarsi ad Arty, intelligenza artificiale benevola e compiacente, diventa metafora di una resa culturale più ampia, quella di un’umanità che, stanca, preferisce delegare perfino la propria essenza. L’uso dei cancelletti come cesura è brillante: marca lo spazio vuoto della creatività sostituita e amplifica il paradosso, perché il lettore sa che lì dovrebbe esserci il cuore pulsante dell’opera, ma trova soltanto silenzio. È proprio quell’assenza a rendere viva la satira.
Interessante anche il crescendo: dalla prosa alla quartina, fino alla biografia finale, in cui la voce di Arty si fa definitiva, quasi lapidaria, sancendo la morte dell’illusione di un io “naturale”. C’è un tono giocoso, ma dietro si avverte un’eco più amara: la domanda implicita è quanto di noi stessi siamo disposti a cedere all’artificio senza accorgercene.
In fondo, questo testo è un piccolo specchio deformante: fa sorridere ma costringe a riflettere sul valore della voce individuale, sulla differenza tra creatività vissuta e creatività simulata. L’efficacia sta proprio nel ribaltamento: chi legge si accorge che non basta “delegare” per dire di aver detto. Forse la vera poesia, qui, non è nei versi mancanti ma nella consapevolezza di quella mancanza.
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02/09/2025
Caput undecimum
La sesta stanza
-L’unica cosa che gli angeli ci invidiano
La sera prima della partenza di Christopher per Edimburgo, da oltre il crinale Edgar aveva deciso di scendere in paese per rifornirsi di cibo e bevande.
Con la sua andatura dinoccolata pareva un omino di pan di zenzero che si strofinava a grandi passi alle foglie di cannella.
E a grandi morsi trangugiava wafer uno via l’altro, annusando inebriato l’incarto.
< Ciao signore… mi piacciono tanto i wafer > una bambina vestita di amaranto, seduta su di un cippo muschioso.
<<Ciao, prendine uno>> Edgar cercando di scantonare.
< Signore, me ne dai un altro? >
Bloccandosi, visibilmente contrariato
<<Tieni la confezione, ma ora torna a casa>>
< Domattina il mio buongiorno avrà i capelli che profumano di latte e cacao >
Già ripartito, e di spalle
<Grazie. Devo dirti ancora una cosa, Edgar…>
Con le gambe impietrite e il cuore di corsa
<<Bimba, chi ti ha detto il mio nome…>>
<Un angioletto.
Vuole che tu porti un messaggio a una donna.
Adamantina avrà un figlio… dille di amare anche lui attraverso il loro bambino>
Uscendo dalla stanza Samaèl, verso un quadro di donna
«Anelerò ogni istante che non mi sarà concesso di pettinarle i capelli»
Edgar guardava il vecchio cippo. Nessuno oltre a lui e il cremisi di una cocciniglia sulla pagina strappata di un libro.
L’aveva sognata? E quel nome che gli pareva di avere già sentito, Adamantina!?
Corse quasi, per quanto possa correre un uomo della sua mole.
Davanti alla drogheria, col fiatone
<<Niente…>> si disse
<<non è successo niente>>
All’interno, proprio mentre stava per pagare, si accorse che dietro al bancone era affissa alla parete un’istantanea per tutto rassomigliante alla bambina dei wafer.
Così domandò al proprietario se si trattasse di sua figlia
<<Sa, l’ho incontrata poco fa… è golosa di wafer>>
Il droghiere si incupì, e con voce triste disse che si trattava di uno sbaglio… che la figlia era morta diciassette anni prima, rientrando a casa di sera da oltre il crinale.
Edgar si diradò, scordando le provviste, nella nebbia che era calata sui campi.
E sui suoi pensieri.
Qualche mattina dopo il ragazzone, rimuginando e ancora, si ritrovò senza quasi volerlo davanti alla locanda.
L’insegna Della Cannella risaltava spettrale sulla facciata bianca.
Entrando
<<Ho le galosce infangate…>>
“ Venga pure, non si faccia problemi” la voce fragile di Adamantina
“…posso farle solo un caffè, se vuole. Altrimenti deve aspettare la proprietaria. Rientrerà a momenti ”
<<A dire il vero, cerco la signora Adamantina…>> pur avendone riconosciuto il profumo.
Tentennando
<<…non so bene perché sono venuto>>
Adamantina sorrise
“Che signore strano è lei. Sono io. In che posso aiutarla?”
Edgar riferì il messaggio della bambina misteriosa, e vedendo il viso sfingeo della donna andò via in tutta fretta.
Appena fuori, nell’angolo dove ha lo scolo un fontanile rosicava l’incarto di un wafer un sorcio.
“Samaèl… amore mio” le lacrime le scivolavano sul viso come la sofferenza di cui sono gelosi gli angeli, sulle proprie vesti.
E stringeva tra le mani un fazzoletto che sapeva di miele.
Un aspetto che appartiene al lato oscuro degli uomini, la sofferenza.
Quella sofferenza che ci assimila al crocifisso.
«Hai fin qui mostrato una parte di quel che mi è stato imposto vedere nelle stanze del Palazzo.
Non potrai più esimerti ora, autore dal narrare ciò a cui dovette assistere il camionista nello spiazzo della locanda e...» accostato al bisbiglio impenetrabile dalla borsa da viaggio sul portabagagli posteriore nella Volga nera del lemure custode dell’ala recisa.
(in tomo invidia)
-----la chiusa è ispirata a un pensiero di Padre Pio
liber primus





