- Ciao, come stai? Una volta, di maggio, venivi a trovarmi spesso… -
- Beh, altri tempi, ero un giovanotto, la casa non era lontana, il primo bagno era in aprile. -
- Sì, va bene, ma non mi hai detto come stai. -
- Così così… -
- Carenza di sogni? -
- No, per fortuna quelli non mancano! È che la vita mi prende, mi fa scordare chi sono. -
- E tu sai che devi fare? Alla vita, di’ che sei amico mio. -
- Lo sa, lo sa. Tu, invece, come procedi? Riesci sempre a spumare al meglio? -
- Mi do da fare. -
- Oggi sei di un azzurro antico. -
- Sentivo che saresti venuto e così ho chiesto al vento di assentarsi, di sfogarsi più a Nord. -
- Quale onore! -
- Senti un po’, so che scrivi poesie. -
- E chi te l’ha detto? -
- Si dice il peccato, non il peccatore. Ma tu, nei tuoi versi, mi nomini qualche volta? -
- Altro che! -
- E come mi descrivi? -
- Dipende da come ti vedo. -
- Vuoi dire da come mi vedevi, forse? -
- No, no! Da come ti vedo anche quando sono lontanissimo. -
- E dimmi ancora un’altra cosa… -
- Quale? -
- Hai mai svelato i nostri segreti? Hai mai parlato dei nostri incontri a sera? -
- Geloso? -
- Non si tratta di questo. Il fatto è che oggi sono altri tipi d’incontri. -
- Cioè? -
- La gente arriva, un tuffo e via, e poi si stende a pancia all’aria. -
- La gente non è tutta uguale. -
- In che senso? -
- Magari preferisce il lago, il fiume, i monti o le colline… -
- Fosse così, mi andrebbe bene. -
- Adesso però ti devo salutare. -
- Non andartene Auré! -
- La famiglia, la salute, il lavoro, il futuro… ma ti prometto che tornerò. -
- Io sono qui, io sono il mare. Appena sarai giù per il sentiero, ti riconoscerò. -

Mi avvio guardando, un po’, la sabbia avanti e, tanto, l’acqua indietro. Par che le onde si stirino proprio come me quando, al risveglio mattutino, distendo braccia e gambe. Forse è solo un’impressione, la tenera coda del sogno nella realtà. Sono già sulla stradina e i primi rumori mi rammentano dov’é che son diretto. Spedisco gli occhi al cielo e dopo, quando me li riprendo, si posano sul primo fianco della collina: c’è un salice che non piange.
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Profilo Autore: Aurelio Zucchi*   Sostenitore del Club Poetico dal 04-03-2020

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Milos tra le braccia di Kronos tra le spire di Kairos

«Milos visse nella sua isola lontano dai tempi, vicino a ciò che amò, inseguendo i giardini dell'amore.
Ancora oggi il suo canto d'amore accompagna l'aria della sera e il vento lo trasporta dove dormono gli amori, ancor oggi il mare parla di lui nelle tempeste e nelle bianche onde che si infrangono sugli scogli.
Questo fu Milos poeta E questo il suo canto di lacrime…

Pianse il sentire nel cambiante suono di solitari passi esuli dall'essere, presenti nell'assenza, assenti nel presente e nella solitudine del poeta tutto cominciò a morire».

Io Milos

Morì la sensazione della sete,
perché da tempo non avevo più sete.
Morì la sensazione del caldo,
perché da tempo non avevo più caldo.
Morì la sensazione del freddo,
perché da tempo non avevo più freddo.
Quando non ebbi più tempo per le sensazioni,
nacque il tempo delle insoddisfazioni.
Perché tutto è relativo a esse.

La relativa percezione mutò nell'analisi interiore del tempo,
del proprio tempo vissuto.

«Quando il non tempo restituì al tempo me stesso e la porta dell'oscuro tornò a misurare l'umano agire passarono istanti o splendenti soli in cui l'agire avvenne senza avvenire in un reale che non fu reale.
Allora apparvero terre lontane e fuochi in quel che rimaneva dello scibile del pensare».

Il nulla

Terre vidi,
rosse come il fuoco.
Terre vidi ed esse furono incendiate da scrosci d'acqua.
Scrissi versi per te,
ti chiamai amore.
Nomi urlai al vento,
nulla servì a placare l'ira delle anfore di creta,
no, nulla servì.
Servì il nulla a dar tormento.

Il nulla tramutò l'essenza che, piegandosi alle ragioni, riscoprì il perso equilibrio.

Bilico.

Bilico tu sei per me,
pozzo senza fine.
Mare d'un tempo passato.
Bosco di stoppie.
Pane scialbo.
Bilico sei per me,
o dissipata tristezza
d'uno stupore ritirato.

«Apparve chiaro il legame con le terre e con l'amore che esse aveva irrigato,
mentre il tempo scompariva dal reale»

Bianchi Gelsi scrissi

Bianchi gelsi
d'adorne terre e cadenti foglie.
Nella casa dell'edera trovo voi,
da rincorsi sogni nell'anima flessi.
Vissi nel tempo del fu.
Fui tempo nel palmo di mano.
D'uno spento falò sfiorai lo scritto,
lasciando al tepore storie d'accesi deserti.
Vedo ancora i petali che ricoprivano i tuoi seni
sussultare nell'infinito scritto,
dall'impudico ghibli trasportati.
Or leggo il dorato profumo di Babilonia
tra pensili giardini e sussurri d'acque.

«Ecco che l'amore inondò le terre dello spirito e fiumi di esperienze
dettero linfa nuova all'amore vissuto».

Tempo

Tempo fu languida mia ricerca sul corpo tuo di giada,
immerso in rubini, fra cascate di smeraldi,
fontane d'ametiste e diamanti.
Sfregai lampade d'argento.
Divenni mito per assaporare i tuoi baci,
viaggiando sulle scie dei millenni.
Sì, fu tempo e ora che tempo non è più,
per te cucirò principeschi abiti con i versi delle fiabe.
Per te scriverò l'infinito libro dell'amore.
Per te imprigionerò l'essenza degli astri
e nell'estasi degli occhi tuoi,
finalmente vedrò le mille e una notte.

«Bianchi gelsi d'adorne terre,
son qui sdraiato a guardar di voi perdute guerre.

E dall'amore passò l'anima a volteggiare nel tempo in cui il tempo era tempo
senza tempo, tempo in cui contava la qualità del vissuto».

Kairos

«Nel tormento dell'incerto assoluto comparve l'estasi del dolore che trafisse l'anima con lunghe spine.
Rese viva l'esistenza, le concesse la forza del pensiero, indusse ogni singola emozione verso i “sentieri dell'anima” che portavano alla quiete dello spirito dopo un vagare triste e incerto.
In una notte, notte senza tempo, si materializzarono ancestrali vicissitudini, tra lampi e tuoni tremò l'intelletto e il verbo divenne amore.»

Se dovessi rincorre la solitudine d'una luce accesa,
spegnerei quella clessidra di vetro,
da troppo tempo logorata dalla polvere d'una stella cadente.
Se avessi la forza di graffiare le infinite trame tessute
dalla tristezza scolpirei sulla sabbia i tuoi occhi di cristallo.
Se la malinconia d'un vascello in fuga verso l'orizzonte,
ascoltasse i nostri lamenti, costruirei una piramide per racchiuderli dentro.
Se gli interminabili se che camminano insieme a noi,
rimanessero solo dei se, troverei il coraggio di sussurrare il tuo nome al vento.
Se un raggio di sole riflettesse nel tuo sguardo il labirinto che ci imprigiona,
vagherei per l'eternità alla ricerca del tuo amore.
Se ancora una volta potessi sfiorare con le mani il tuo viso,
resterei lì fermo a osservarti per ore nel silenzio d'una tempesta.
Se negli stralci di queste frasi potessi cancellare le incertezze,
forse mi ritroverei accanto a te.
Se d'un tratto scomparissero i vampiri che volano nelle stellate notti,
rimarrei ancora con te su quella panchina triste e fredda.
Nel calore d'un acceso fuoco annegherei il mio amore e con
infinita dolcezza cullerei i tuoi meravigliosi occhi di cristallo.

«Milos piange ciò che non si può piangere»

Gocce di rugiada lentamente scesero giù dalle foglie,
sguardi lontani s'intrecciarono, s'osservarono.
Piccole ombre nascosero il volto.
Lontano un bagliore scoprì gli occhi.
Immagini sbiadite, lassù vissero ancora.
Burattini come equilibristi corsero lungo il filo della vita.
Risero, piansero, poi in silenzio morirono.
Grida nel silenzio, qualcuno ascoltò.
Nell'oscurità occhi di cristallo brillarono, sorrisero.
Ancora una notte trascorse, una notte senza tempo.

«Continuò la tempesta s'aprirono porte e finestre, si chiuse l'anima in se stessa a cercar riparo dalle folgori. Il tempo si tramutò e nel passato annegò mentre fuori tutto era scuro. La notte urlò, il cuore sanguinò».


Ti cercai nei crepuscoli estivi, ti cercai sulle spiagge deserte.
Il vento spazzò via i tramonti lunari, piegò in due evanescenti realtà,
soffiò sul tuo viso di rugiada, dove eri?
E dove erano i tuoi occhi di cristallo?
Dirupi immensi intorno a me, scogliere di ghiaccio si sciolsero,
sussurrarono il tuo nome.

Eternità latenti dipinsero paesaggi lontani,
sprazzi d'azzurro cancellarono i solchi della vita,

piccoli ramoscelli s'intrecciarono.
Tenere foglie sorrisero alla terra.
Sensazioni fuggevoli piansero.
Echi dispersi nelle nebbie di tempeste stellari
ricordi velati da rigagnoli di sabbia,
fiumi di papaveri imbevuti di rosse emozioni ti invocarono.
Ti cercai sulle rocce dei sentieri, sulle ali delle statue,
ti cercai nelle maree scolorite della sera, ma invano gridai,
mi disperai.

Invano mi chiesi dove eri.

Fruscii d'un tempo immaginario soffiarono lontano.
Sprazzi d'azzurro scomparvero all'orizzonte.
Ricordi persi nelle notturne tenebre, ricordi sospesi, immagini stampate
sulle onde dei mari.
Pensieri... Solo delusioni dimenticate in un angolo
Guardai lontano nel tempo, rividi un volto, ricordai.
Poi chiusi gli occhi e sognai.

«Il sogno trasportò, ma quando la qualità lasciò tempo reale l'anima si chiuse e tutto divenne cupo vivere nello scorrere del tempo, un tempo vissuto...»

Kronos

L'alba della vita
porta in sé scritto il mesto tratto della morte.
Come in un viaggio inesistente scorrono immagini
vissute in altre vite.
Immagini spente
forse mai esistite.
Un evanescente fumo di candela accompagna
l'osservare stanco e vecchio della notte.
Un filtro magico che ridà esistenza
a cartoline sbiadite del passato
che bussano alla porta dell'anima
affrancandosi dal trascorso tempo
cercando un conto mai pagato alla nera falce dell'assurdo vivere.
Sfiorano spazi vuoti saturi di tristezze latenti i momenti
che tali non sono più.
Ti rivedo immersa nella nebbia,
tra righe tracciate e corde di canapa tese.
Rivedo percorsi mai vissuti,
assurdamente vivi che grondano sangue da dorate coppe,
irrigando strazianti ferite insonni.
Dormi accanto a me,
mentre le tempeste risuonano sulle rosse terre.
Dormi nel silenzio di questa scura ora,
ora che non conta
contando d'essere ora scandita dal tragico ballonzolare
d'una tremola luce.
Rendo indietro l'anima
correndo fra lontane grida e risa
che lente affiorano dal buio.
Rendo discorsi non fatti
appendo parole su panchine vuote,
appendo una goccia di rugiada
a un arrugginito lampione.
Come morsa che stringe il pensare
costringendolo in una lugubre prigione,
cosi il pensare attanaglia il vedere mesto d'un giorno di pioggia.
Dissi d'esser vento impetuoso
che dal mare dell'orgoglio venne.
Dissi d'esser polvere trasportata dalle mattutine brezze
nell'eden delle immortali passioni.
Dissi d'esser tutto non immaginando d'esser nulla.
Se il nulla fu nulla,
allora l'abbracciai in una vita non mia.
Se le nenie suonate da legni intrisi d'odio
bussarono alle porte del tempio dell'oblio.
Se tutto questo ebbe la sua ragione,
allora vissi morendo ogni piccolo istante,
senza aver mai compreso d'esser vivo.
Addio mio dolce sentire,
ti lascio solo in questa notte illuminata da una fioca luce.
Addio io torno ad addormentarmi nel sonno del non ritorno.

«Dormi poeta nel tuo sonno senza sonno, dormi nel tuo non tempo, l'unico che ti fece vivere nel tempo.»



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Profilo Autore: Giancarlo Gravili  

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Il gran bazar della malinconia

«Il tempo non è mai quello che appare e ciò che appare non è il tempo»

Vecchie ciarpaglie accantonate alla rinfusa su scaffalature arrugginite e sgangherate si presentavano in bella mostra all’ingresso d’un enorme capanno…
Licia era sempre un passo dopo l’entrata, accoglieva con un sorriso il visitatore e indicava la direzione da seguire in quel dedalo di corridoi e scaffali, a volte dava l’impressione di essere lì per sostenere il vecchio portone in legno scuro che chiudeva quel luogo pieno di polvere e oggetti vecchi e inutili.
All’interno del capanno una serie innumerevole di vecchie cose se ne stava, sporca e piena di polvere nerastra, accatastata in modo disordinato dando l’impressione d’esser stata gettata sulle scansie con imprevedibile casualità da chissà quale mano.
L’ingresso al gran bazar della malinconia, questo recava scritto l’insegna sul portone, era contingentato a un massimo di tre persone per volta; il posto era veramente un labirinto di stanze e corridoi ma la sua grandezza era tale da non capire per quale motivo si potesse entrare in così poche persone. Il negozio era aperto tutto il giorno ventiquattro ore su ventiquattro.
Non esisteva campanello all’ingresso e quando il portone era chiuso non v’era alcun modo di bussare per farsi aprire, chiunque avesse tentato di dare dei colpi al legno non avrebbe ottenuto nessun suono, quel portone sembrava essere fatto di spugna eppure era durissimo al tocco…


Licia aveva uno sguardo molto dolce quando accoglieva la gente che immediatamente si sentiva a proprio agio. Il soffitto del capanno era poco illuminato e risultava un po’ complicato vedere bene gli oggetti e il percorso, stranamente però dopo un breve lasso di tempo, la vista s’abituava alla luce e tutto si mostrava nel suo polveroso stato.
Visto dall’esterno sembrava un comunissimo mercatino dell’usato e non era pensabile che in realtà in quello strano luogo sarebbero entrate solo tre persone in un intervallo temporale che non era classificabile.
Proprio così, s’entrava con un orario e…
In un giorno qualsiasi d’un anno qualsiasi tre persone incuriosite dalla scritta, mentre passavano in auto, si fermarono davanti al gran bazar della malinconia. La porta era aperta e Licia era appena un passo dentro.
Due donne e un uomo scesero dall’auto e s’avvicinarono all’ingresso.
«Avanti entrate pure, il bazar è aperto»
«Grazie, possiamo?»
«Un attimo che vi indico il percorso da seguire»
Licia con la mano sinistra accostò la porta e fece segno di guardare la direzione delle frecce che erano disegnate sul pavimento.
«Buona permanenza»
«Grazie» risposero i tre con aria divertita.
«Chissà perché ha chiuso la porta» disse Eleonora strabuzzando gli occhi.
«Forse stanno per chiudere» ribatté Giovanni.
«Beh, seguiamo le frecce come ha detto quella signora» incalzò Elena.
Un lungo corridoio, che diramava in lunghi transetti laterali, appariva loro di fronte e ogni cinque metri in lunghezza s’aprivano delle stanze quadrate d’eguali misure.
Percorsero i primi passi nell’incertezza e nello stato d’animo curioso come s’addice a dei bambini che per la prima volta entrano in un negozio di giocattoli.
La prima stanza a sinistra conteneva una quantità enorme di libri usati, essi non avevano una catalogazione precisa ed erano poggiati negli scaffali alla rinfusa.
«Guarda Elena» disse Giovanni con occhi che parevano stregati, «Guarda, “I viaggi di Gulliver”, accidenti quanto tempo è passato, l’ultima volta che lessi questo libro fu per gli esami di maturità,
avevo scelto inglese come seconda materia. Porca miseria, ma questo è il mio libro, c’è il cuoricino che avevo disegnato e... la mia firma, non è possibile!»
«Pensa te, si vede che tua madre l’ha venduto a qualche rigattiere e poi sarà finito qua per chissà quale coincidenza» rispose Elena quasi divertita.
«Ehi, indovinate cosa ho trovato?»
«Cosa Eleonora?» disse Giovanni distogliendo lo sguardo dal libro che aveva in mano con un’espressione tra il sorridente e un velato senso d’incertezza e paura.
«Questo è il compendio di storia dell’arte di Arnold Hauser, quello stronzo del prof. Guido ci impose di leggerlo in una settimana per poi affossarci tutti nell’interrogazione, pensa che per come ero incazzata d’aver beccato quattro scrissi dietro l’ultima pagina: “questa è una storia di merda”».
Eleonora cominciò a sfogliare le pagine di quel vecchio libro oramai ingiallito e con grande meraviglia scoprì che sull’ultima pagina vi era scritto: “questa è una storia di merda”
«Ma... non posso crederci e non voglio crederci, questo è il mio libro del liceo, si proprio lui»
«Ma dai, guarda tu che coincidenza, ma... portano tutti i libri in questo posto?» disse ridendo Giovanni.
Poi i due sembrarono attratti da quei libri e s’estraniarono dalla conversazione tra loro vendendo letteralmente rapiti in un spazio senza tempo.
«Porcaccia vaccaaaa! Urlò Elena questo libro di chimica è il mio, ho riconosciuto le linguette delle pagine tutte rosicchiate. Ogni volta che la professoressa Calci spiegava mordevo le punte della pagine nutrendomi di cellulosa per il nervoso»
Giovanni fu scosso come da una scintilla e lasciò cadere il terra il suo libro…
«Ragazze forse è meglio andar via, questo posto mi incute molto timore.»
Eleonora ed Elena annuirono con un cenno della testa e si presero per mano. Con una certa paura i tre uscirono da quella stanza, ma il corridoio non esisteva più, al suo posto una stanza piena di orpelli, ninnoli di creta e piatti di ceramica.
Giovanni cominciò a gridare «Signora! Signoraaaaaaa, dove s’è cacciata?»
«Sono qui all’ingresso! Non mi vedete? Sono proprio dietro di voi» La voce di Licia, forte e chiara, risuonò come una eco in tutto il capannone.
«Ma dov’è signora? Non vediamo un cavolo e dov’è il corridoio d’ingresso? Signoraaaaa! La voce di Elena pareva percorsa da mille vibrazioni»
«Calma, calma sono qui proprio dietro a voi, terminate pure il vostro giro, non chiudiamo mica ora»
«Ma quale giro e giro noi vogliamo uscire, da dove s’esce porca puttana?» Biascicò con la lingua irrigidita e priva di salivazione Giovanni.
«Tranquilli, da qui si va via solo dopo aver terminato il giro, procedete pure e vedrete che dopo uscirete» La voce di Licia rimbombava sempre di più nel capanno…
La paura scorreva come un fluido freddo nelle gambe e nelle braccia, irrigidendo gli arti e rizzando ogni peluncolo che vi dimorava sopra. Altro non potevano fare e, appoggiandosi l’un l’altra, cercarono di proseguire a tentoni nella stanza in cui si trovavano.
Per ogni cosa esposta e impolverata essi trovavano sempre qualche oggetto appartenente al proprio passato.
Lo sconforto durò a lungo anche se una certa meraviglia nello scoprire quegli oggetti non mancò nel visitare tutte quelle stanze.
La realtà temporale non aveva senso in quel posto incredibile e, trovandosi nel suo interno, nessuno aveva più la cognizione di dove fosse e quale fosse l’ora, tutto era fermo nella polvere.
Di stanza in stanza i tre ragazzi sbucarono in un androne enorme dove v’era un gabbiozzo di legno a mo’ d’edicola con due finestre e una porticina. I vetri erano appannati e davano l’impressione di essere lì da qualche secolo, s’intravedeva all’interno una luce traballante e delle ombre…
Giovanni si fece coraggio e per primo cercò di girare una manopola d’ottone, ma il sudore ghiacciato della mano gli fece perdere la presa più volte, poi senza nessun tocco la porta s’aprì consentendo ai tre di entrare dentro.
Licia era seduta dietro una scrivania col piano in pelle, aveva un paio d’occhiali calati leggermente sul naso, dalla forma tonda tagliati in alto da una linea curva erano d’un colore nero striati con delle venature color osso.
Alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e sorrise…
«Finalmente siete arrivati, ce ne avete messo del tempo! Ihihihihihi...»
«Ma dove siamo, vogliamo uscire, fateci uscire da qui, per favore» disse con voce flebile Elena.
«Non siate impauriti, siete nel gran bazar della malinconia, nessuno vi farà del male»
I volti tirati e tesi come corde di violino dei tre cominciarono a stendersi e il pallore biancastro che aveva colorato fino ad allora le gote cominciò a trasformarsi in una leggera pennellata di rosso.
Intanto all’interno di quella edicola, v’era a sua volta un altro gabbiozzo con una porta ancora più piccola.
«Cosa c’è di là?» Chiese Eleonora.
«Quella è la porta del Giocattolaio magico»
«Giocattolaio magico?» sussurrò Giovanni.
«Giocattolaio magico... sì, da tanto tempo raccoglie i ricordi delle persone e li stipa in questo bazar, nessuno lo ha mai visto nemmeno io ho varcato quella porta»
«E non possiamo parlarci almeno?» chiese Elena
«No ragazzi miei, ora è meglio che andiate, la vita vi aspetta la fuori e poi siamo in orario di chiusura»
«Ma un attimo vorremmo capire» Giovanni facendosi più forte nella voce, fece un balzo in avanti verso la porta.
«Siamo in chiusura ragazzi, mi dispiace»... la luce della candela che illuminava il volto di Licia si spense di colpo e…

«Ehi ragazze che ne dite se ci mangiamo un panino in qualche birreria, conosco un posto che si chiama il gran bazar della malinconia è molto vecchio, pare che facciano dei panini da Dio»
«Ma sai che questo nome non mi è nuovo Giovà»
«E dove sarebbe sto posto?»
«Proprio qui dietro, una svoltata d’auto Ele»
«Beh, allora sbrigati, ho una fame, non so voi»
«Mah, però sto nome mi dice qualcosa»

L’auto si fermò a ridosso del marciapiede e... di fronte dalla parte opposta della strada un vecchio capannone con la scritta “Il gran Bazar della Malinconia”.

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Profilo Autore: Giancarlo Gravili  

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Giulio raccatta i piedi da terra e bastonando la sua giovane gamba destra di legno, persa in falegnameria, saltella con la sinistra ancora in uso prima d'andare in disuso e si fionda a corsa di bradipo tartarugato presso la panchina vuota esposta al sole.


Sole sono spesso le anime quando di loro non resta che il ricordo.
Ora Giulio, nel suo incedere nel mondo, finalmente ha il suo posto sotto i riflettori del cielo.
Un palco niente male su cui esprimere tutta la sua virile forza di pensionato al minimo e con il minimo dei desideri.
La gazzetta dello sport si legge bene oggi con un occhio solo, la luminosità non è eccessiva e nemmeno scarsa.
Nessuno vede l'altro occhio di vetro sempre concesso al valore ligneo del lavoro, si può mettere in tasca. Approntare l'apparecchio acustico non interessa, meglio non essere disturbati: la passione per il calcio ha la precedenza.

Cazzo, se non fosse per la carenza di calcio nelle ossa magari oggi si potrebbe anche fare un po' di jogging in questa bella giornata spensierata, invece no ecco Giulio seduto in santa pace con le sue tre dita a tener fermo quel giornale di merda che invece tremola tutto.
Due dita si possono anche concedere alla sega circolare a nastro.
Bei ricordi quelli andati. Sì, andati a “morì ammazzati”.
Il tempo scorre tra un rigore non dato e un arbitro consueto alle figure retoriche d'alci e caproni.
A vederlo si descrive quasi un salto nel tempo, quando queste cose contavano ancora.
«Cosa guardiamo ora, di contro?»
Un uomo sulla mezza, mezza, mezza età della superata quarta età.
Vale a dire un uomo che si sente un bimbo di cinque anni col pisello d'un vetusto signore, no correggo un uomo vetusto col pisello di uno di cinque anni.
Beh insomma non c'è né l'uomo e né il pisello e che cazzo!
Ma lasciamo in pace il baby e diamo uno sguardo in giro tanto lui è confinato nella sua macchina del tempo.
Una giovin pulzella alta quasi quanto un platano sta “platanando” sui tacchi per i viottoli erbosi del prato cittadino in questione.
Bionda “parruccata” con occhi magnetici da reggere comodamente anche un paio di tende da salone e pure le tette rifatte e il culo a tiramisù.
«Sarà mica una prostituta, che ammicca i poveri pensionati per spillargli soldi?»
No, lei è una serial ladra.
L'ultimo colpo è stato magro: trenta euro a un sognante uomo con tanto di foto d'amori e famiglia passata.
«Che sventola ragazzi. Quella sculetta come le onde del lago di Garda!»
Vaffa... al giornale: occhio di vetro (legno o altro materiale bio-logico) a posto, guanto alla mano perfetto, pantalone allargato sotto a nascondere il legno, cavallo sopra la panza a stringere i coglioni per mostrare il pacco e...
E... “coglione abbassa i pantaloni se no te castri!”
Accidenti per poco non mi sviene.
Una boccetta d'acqua di colonia spruzzata qua e là, giù e su, più giù che...
“Tralla e lero e tralla e là” la ragazza biondona adocchia la preda che, impettita come un leoncino alla revisione della motorizzazione civile, luccica al sole nelle sue borchie argentate che lo saldano e lo tengono unito.
La giovane avvenente ladra, dopo aver contato di soppiatto il bottino che ha in borsa, s'avvia in tutta la sua platonica “platanità”. Accidenti cinquemila euro, non male per inizio di giornata.
“Ciao bel vecchiaccio intrigante sei solo oggi? Posso aggregarmi al tuo splendido pacco?”
Già l'odore della moneta pecuniosa si staglia lungo tutta la sua taglia.
“Certo bella zoccola che non fa la prostituta, oramai non mi si fila più nessuno, pendo dalla tua maglietta succinta”
“Non sono incinta, ma mi siedo volentieri con te, che stupendi zigomi che hai!”
“Modestamente me li sono tagliati da solo, facevo il falegname”
“Allora te ne intendi di quella roba lì”
“Sicuro mi chiamavano il re delle s...”
“Che spirito, ma dimmi sei solo nella vita?”
“E sì, sono rimasto solo da quando m'è morta quella barboncina di mia moglie, che dolore immenso, la portavo sempre qui e faceva i bisognini nell'aiuola senza sporcare, che meraviglia!”
“Poverino hai bisogno che qualcuno ti dia una mano per la spesa, io ti posso aiutare volentieri, poi per un uomo interessante come te...”
“Che carina che sei, guarda, vorrei comprare un paio di quotidiani da leggere, l'edicola è lì di fronte”
“Figurati ci vado subito!”
“Ecco cara prendi il mio portafoglio, è qui in tasca davanti sfilalo tu io non ci riesco”
“A… bricconcello pisellone!”


Una mano fa qualcosa mentre un'altra con astuzia di mestiere da taglio, apre la borsetta della ladra e ripulisce tutti i soldini, richiudendo con magistrale perfezione il tutto.
“Vado allora ammaliatore, prendo i giornali e torno”
Lui la controlla con lo sguardo da lontano.
«Mi dia quei due quotidiani, un attimo che prendo gli spiccioli, ma! Cazzo il portafoglio è vuoto» “Stronzo d'un vecchiaccio! Un' attimo guardo meglio in borsa... m'ha fregato pure i cinquemila euro!”
“Signorina, si sente bene? Non importa prenda pure i giornali, lei è così bella!”


Una panchina nel parco ospita una ladra che singhiozzando legge i giornali.
«Ladro ripulisce le persone, la polizia indaga in seguito a numerose denunce su un geriatrico frequentatore del parco per la prostidudine»

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Kyros

«Nel tormento dell’incerto assoluto comparve l'estasi del dolore
che trafisse l'anima con lunghe spine.
Rese viva l'esistenza, le concesse la forza del pensiero.
Indusse ogni singola emozione verso i “sentieri dell'anima” che
portavano alla quiete dello spirito dopo un vagare triste e incerto.
In una notte…

Notte senza tempo si materializzarono ancestrali vicissitudini.
Tra lampi e tuoni tremò l'intelletto e il verbo divenne amore
».

Se dovessi rincorre la solitudine d'una luce accesa spegnerei quella clessidra di vetro da troppo tempo logorata dalla polvere d'una stella cadente.
Se avessi la forza di graffiare le infinite trame tessute dalla tristezza, scolpirei sulla sabbia i tuoi occhi di cristallo.
Se la malinconia d'un vascello in fuga verso l'orizzonte ascoltasse i nostri lamenti, costruirei una piramide per racchiuderli dentro.
Se gli interminabili se che camminano insieme a noi rimanessero solo dei se, troverei il coraggio di sussurrare il tuo nome al vento.
Se un raggio di sole riflettesse nel tuo sguardo il labirinto che ci imprigiona vagherei per l'eternità alla ricerca del tuo amore.
Se ancora una volta potessi sfiorare con le mani il tuo viso resterei lì fermo a osservarti per ore nel silenzio d'una tempesta.
Se negli stralci di queste frasi potessi cancellare le incertezze forse mi ritroverei accanto a te.
Se d'un tratto scomparissero i vampiri che volano nelle stellate notti mi appoggerei ancora con te su quella panchina triste e fredda.
Nel calore d'un acceso fuoco annegherei il mio amore e con infinita dolcezza cullerei i tuoi meravigliosi occhi di cristallo.

«Gocce di rugiada lentamente scesero giù dalle foglie,
sguardi lontani s'intrecciarono, s'osservano.
Piccole ombre nascosero il volto.

Lontano un bagliore scoprì gli occhi.
Immagini sbiadite,

lassù vissero ancora.
Burattini come equilibristi

corsero lungo il filo della vita.
Risero, piansero, poi in silenzio morirono.
Grida nel silenzio,

qualcuno ascoltò.

Nell'oscurità occhi di cristallo brillarono,

sorrisero...
Ancora una notte è trascors
a, una notte senza tempo»

Continuò la tempesta s'aprirono porte e finestre, si chiuse l'anima in se stessa a cercar riparo dalle folgori. Il tempo si tramutò e nel passato annegò mentre fuori tutto era scuro. La notte urlò, il cuore sanguinò.
Ti cercai nei crepuscoli estivi, ti cercai sulle spiagge deserte.
Il vento spazzò via i tramonti lunari, piegò in due evanescenti realtà, soffiò sul tuo viso di rugiada.

E tu dove eri?
E dove erano i tuoi occhi di cristallo?
Dirupi immensi intorno a me, scogliere di ghiaccio si sciolsero, sussurrarono il tuo nome.

Eternità latenti dipinsero paesaggi lontani, sprazzi d'azzurro cancellarono i solchi della vita, piccoli ramoscelli s'intrecciarono, tenere foglioline sorrisero alla terra, sensazioni fuggevoli piansero.
Echi dispersi nelle nebbie di tempeste stellate, ricordi velati da rigagnoli di sabbia, fiumi di papaveri imbevuti di rosse emozioni ti invocarono.
Ti cercai sulle rocce dei sentieri, sulle ali delle statue, ti cercai nelle maree scolorite della sera, ma invano gridai, mi disperai.

Invano mi chiesi dove eri.

Fruscii d'un tempo immaginario soffiarono lontano, sprazzi d'azzurro scomparvero all'orizzonte.
Ricordi persi nelle notturne tenebre, ricordi sospesi, immagini stampate sulle onde dei mari.
Pensieri... Solo delusioni dimenticate in un angolo.
Guardai lontano nel tempo, rividi un volto, ricordai.
Poi chiusi gli occhi e sognai...

«L’universo si apriva nel sentiero delle memorie perdute dove ogni realtà umana diveniva illusione e le immaginazioni erano reali.
La porta per accedere al viottolo che introduceva alla piccola strada era inesistente e si poteva trovare solo divenendo oblio con l’anima in una simbiosi con i fili di pensiero che legavano ogni cosa nell’intera esistenza cosmica.
La reminiscenza era la personificazione d’una dimensione e infinite risultavano le esperienze che appartenevano alle dimensioni stesse»

Lasciai il mondo conosciuto per entrare negli oblii di Morfeo nel tempo di dicembre accompagnato nelle movenze da un freddo vento di grecale che spirava da Oriente, la mia sensazione di essere vivo veniva dalla pungente necessità di cercare il tepore delle reminiscenze.
Avevo dimenticato ogni legame con la conoscenza di me stesso e a muovermi in quel sentiero era
un refolo di puro Amore che mi spingeva ad andare avanti.
La strada era molto stretta, ai suoi lati v’erano intrecci di rami azzurri e di fiori color arancio che non avevo mai veduto, negli spiragli fra gli arbusti emergeva un blu intenso puntinato da bagliori dal colore dell’oro che a ritmo alternato sparivano e apparivano.
Il cielo si apriva e si chiudeva con il moto del pensiero e ogni movimento poteva avvenire sia sul selciato sia sospeso in una nebbia surreale che non era altro che polvere di stelle.
L’aria profumava di gelsomino e tutto era abbracciato da umide gocce di rugiada che scendevano da i rami più alti degli alberi, il rumore da esse creato donava alla mente una melodia meravigliosa che lasciava il peso della vita avvolto da un inesistente peso.
Mi cercavo con le mani toccandomi il viso ma avevo perso la materialità e ogni percezione avveniva in uno stato di non coscienza che non si poteva spiegare essendo comunque in grado di percepire tutte le realtà di quel luogo.
Saltavo tra fiori coloratissimi, profumi inebrianti e oblii di notturni mondi in cui le porte dell’universo si spalancavano al galleggiare dell’anima, cieca a ogni visione ma pienamente appagata da tutto quello che le visioni stesse potevano raffigurare allo stato imperscrutabile che ogni anima aveva.
Ero bambino e adulto al tempo stesso, potevo parlare all’universo e sentire le risposte in me senza udire nulla realmente.
Accanto al sentiero apparivano altissime cascate d’acqua e flauti magici circondavano l’aurea di infinito, formata dal cadere irruente e tempestoso dei fiumi in strapiombi senza fine.
Alzando lo sguardo al di sopra della mia coscienza apparivano in prospettiva infiniti arcobaleni che
erano innanzi a me e io mi sentivo parte di un immenso trompe-l’oeil che sembrava catturarmi nell’inganno.
Ma non era realtà e nemmeno immaginazione… qual era allora la dimensione in cui mi trovavo.
Non riuscivo a trovare nessuna risposta corrispondente alle mie immaginifiche domande e... per il primo infinito istante, da quando ero entrato nel sentiero delle memorie perdute, in me era comparsa inquietudine e paura.

Poi una lieve carezza sfiorò la mia incorporeità, una mano affusolata dalla pelle bianchissima lasciò il suo pensiero sul mio volto. Alzai la mia mente verso la concezione d’ogni dimensione e vidi accanto a me una donna vestita da bianche sete e merletti. Aveva dei lunghissimi capelli neri e degli occhi color cristallo e un grande cappello bianco con una velatura trasparente che l’adornava a completare l’estasi che aveva stregato il mio tempo. Chi era?
La sua voce soave non era udibile eppure io sentivo ogni sua parola e sembrava che avessi conosciuto da sempre il suo pensiero… La bianca Signora, lasciando nell’aria una scia di color verde smeraldo, con movimenti lentissimi cominciò a muovere le mani sulla mia testa e io in quel momento mi resi conto della mia esistenza nel tempo del non tempo.
Dentro di me un’eco risuonava e io potevo ascoltare il suo senso: «Ho tagliato i fili che ti legavano, va libero dove vuoi mio piccolo burattino, è tempo che tu vada».
La Sintonia degli Universi, la Madre del Caos Iniziale, nella sua infinita bontà aveva aperto le porte della coscienza unica a tutto ciò che io ero lasciandomi libero di divenire polvere di stelle.


«Ecco finalmente apparir la fine del sentiero.
Tutto ora e più chiaro.
Pace trova l'anima
dal freddo fluire delle nubi, mentre un viso di donna resta impresso dentro fra mille sensazioni floreali»

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«Nell'andare verso nord, sotto la cintura delle Alpi, un crogiolo di case riempie la pianura veneta, qui vi scorre irrequieto il Bacchiglione attraversando le terre del Palladio e gli Euganei colli fino al Patavino capoluogo dove si dirama fino a toccare il Brenta dolomitico e di là va poi a trovar sbocco in quella che chiamano laguna di Venezia.
Guarda l'altopiano d'Asiago dai sui erti monti il comprensorio sottostante invidioso della nebbia che frequentemente lo riempie.
Non lontano dal luogo di nascita del Mantegna se ne sta il borgo che m’accoglie con la sua torre comunale e il campanile della vecchia chiesa.
La vista che accoglie volge in fronte al colle della Madonna ai piedi del quale, prima d'iniziar la salita che al parco regionale porta, si trova l' Abbazia di Praglia, con la sua millenaria storia.

Al suo interno la biblioteca nazionale ospita molte delle opere di Antonio Fogazzaro lasciate in eredità ai monaci Benedettini, un suo romanzo fu ispirato ai luoghi stessi»

V'era una stradina nel luogo di mia dimora che amava circondarsi d'orticelli così piccoli e quadrati da sembrar quasi una grande scacchiera dove qualche alto stelo di pomodorini si dava aria d'essere il re e delle verdi zucchine pensavano magari d'esser regine e tutta la corte erano poi i vari ortaggi di stagione.
Codesta picciola viuzza s’inoltrava formando uno stretto sentiero all'interno d'un bosco di tigli e querce che a cintura circondava un lago dalle acque verdi e chiare.
Percorrendo quel cammino, sotto un arco di rami intrecciati, s'andava all'interno della vegetazione fin quando poi non si godeva di stupenda vista.
Un casolare antico nascondeva la via d'accesso, rendendo quei luoghi riservati e nascosti al rumore e agli affanni del quotidiano vivere.
In inverno la terra, intrisa d'umido e nebbie ricorrenti, si presentava tanto fangosa da rendere l'accesso al lago meno agevole.
Spesso andavo per esso accompagnato da raminghi pensiero e in quel venire di cercati ricordi dettavo al mio diario sensazioni di melanconiche vedute.

Pensieri sfiorarono i tuoi sensi.
S'ammantarono di fresca
mattutina bruma,
in un insolito gennaio
che al freddo rideva di sé,
fra nuvole e spogli campi.

«La vecchia chiesa pareva diroccata seppur d’essa s’udiva ancora il tocco delle campane, qualche scoiattolo, balzellando qua e là, raccattava bacche per poi scomparire nel nulla del sottobosco o su alte fronde che miravano più alla luce che al fosco umido della natura sottostante».


Arrivò un tenue sole,
s'accese di pallide
sensazioni la strada.
La percorsi
scivolando sull'erba,
ma non trovai ragione alcuna

per essere lì.
Nella distrazione d’un istante perduto

colsi dalla fresca terra un cuore.

Pareva ancora pulsare.

Cercai d’accudirlo con amore

prima di riporlo in me.

«Frastuoni velati provenivano da germani che dell’acqua non pativano il gelo e forse nemmeno esistevano se non in qualche anfratto boscoso della mia mente. Ero solo con me stesso avvinghiato agli scricchiolii che le scarpe concedevano alla pietraia bianca e scivolosa»

Pensieri sfiorarono
i miei sensi in gennaio
ma non raggiunsero
mai i suoi.

Di me ella era fantasma senza voce

carisma imprescindibile

del mio calamaio.
Le portai indietro il cuore,
ma un altro ne possedeva

e non il mio.

«Allora scrivevo steso su di una radice che tra le secche foglie usciva fuori a curiosare fino a morire con il suo legno nell'acque del lago.

Nulla poteva il freddo su un uomo già freddo e inerme.
Mi tenevano compagnia i canti dei
miei perché e immaginavo primaverili merli che gironzolavano qua e là in cerca di vermetti e qualche anatra di cui mi divertivo a imitar verso.
Era una natura perfetta tanto da rendere lo spirito giovane e sognante
seppur il grigio e la nebbia circondavano ogni cosa»

Mentre una brezza leggera

dal lago saliva

dal taschino presi un cuore,
smarrito per caso
nella bruma del mattino,
lo baciai teneramente

per poi lanciarlo verso l’acqua più profonda.
E nel far questo

lasciai per sempre quel bosco,
un giorno d'un gennaio inesistente

«Ma i versi a volte finiscono e il freddo spesso risveglia il bisogno d'umano calore.
Quel calore non era molto lontano, la mia casa era poco distante; mi svegliai dal mio sogno, salutai quei luoghi con il mio infantile garbo, raccolsi le mie membra in un unico corpo e m'alzai ancor vivo nei pensieri»

Una notte distrutta
lasciò il posto
a un’alba timida e nascosta,
traversò il mio amore
e io venni a cercarla ancora
in luoghi dove il dolore
trova sempre cura.

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La soffitta della soffiata soffritta.

Genoveffa Frau

Genoveffa Frau

Nei lontani giorni di fine ottocento due cugini sprovveduti decisero di mettere per iscritto i loro pensieri da tramandare ai posteri.
Scelsero come base una vecchia soffitta impolverata, chiusa da tempo per inutilizzo,  dopo una bella ripulita sarebbe stato un luogo ideale per scrivere in santa pace lasciando che la fantasia facesse le sue evoluzioni in totale libertà.
Per non disturbarsi a vicenda decisero di utilizzare quello spazio a giorni alterni dopo aver dato una bella sistemata al locale munito di piccole finestrelle che permettevano alla luce del sole di infiltrarsi illuminando tutto lo spazio, lasciando solo piccole zone d'ombra che non intimoriva i ragazzi.
In un angolo ricoperta da un lenzuolo un tempo bianco, troneggiava un'antica sedia a dondolo ben conservata, nessun tarlo aveva osato profanarla. Ancora non sapevano i ragazzi dei nuovi tarli con cui avrebbero dovuto combattere.
Con grande sorpresa scoprirono un antico pianoforte, neppure un graffio lo aveva intaccato, i vecchi proprietari amanti della musica, non vollero cederlo a persone incompetenti, per timore dei ladri lo fecero riporre in soffitta, con le dita rattrappite e doloranti per i reumatismi non erano stati più in grado di poterlo utilizzare, non avendo figli lo preservarono per l'unica parente ancora in vita, la sorella Emily.
Cosi era stato raccontato ai ragazzi dalla loro zia che ereditò quel vecchio casolare, un tempo maestosa villa nel verde d'una ridente vallata di Axeminon appartenente alla contea di C.Caunti Valley.
Ultimati i lavori di riassetto e pulizia, i giovani ben presto iniziarono a giorni alterni la stesura del libro che avevano in mente. Scrivere in soffitta si veniva a creare un'atmosfera ispirante, i versi fluivano leggeri come cascate verso un fiume, trascrivere le loro emozioni soggettive che poi avrebbero assemblato in un unico volume sarebbe stato un gioco.
Non si incontrarono mai nei giorni dedicati alla scrittura, rispettavano gli impegni presi e tutto procedeva per il meglio fino a che un intruso si intrufolò nella soffitta facendo man bassa dei loro appunti.
Incaricarono un investigatore privato e in breve scoprì l'autore del furto.
Messi al corrente i ragazzi compresero d'aver a che fare con uno psicopatico, individuo bipolare con manifestazioni compulsive maniacali edonistiche.
Voleva predominare su tutti, essere il migliore di tutti senza scrupoli abile nel danneggiare chiunque gli capitasse a tiro.
Convinto genio della scrittura, era solamente genio dell'inganno.
Pensava d'essere al sicuro celato dietro innumerevoli nomi fasulli, anche di donna, su cui trincerarsi, talvolta facendosi aiutare da sprovveduti complici coinvolgendoli nelle sue malefatte.
Tanti altri hanno avuto a che fare con lui e ne sono venuti fuori stremati e sfiancati.
I ragazzi presero una saggia decisione, denunciarono il fatto alle autorità competenti, il furto è un reato punibile con l'arresto e risarcimento dei danni alle vittime.
Non l'avrebbe spuntata con loro, oltretutto era ben dimostrabile il furto e il successivo plagio dei testi.
Decisivo il suo sbandierare ai quattro venti la sua capacità di trafugare opere non sue.
Presto avrebbe varcato le soglie del carcere, nonostante l'età avanzata, non avrebbe avuto sconti di pena essendo già stato condannato per altri reati.
Il libro avrebbe visto presto luce mentre il ladro avrebbe ritrovato il suo mondo oscuro dietro le sbarre.
Ragazzi muovetevi, oggi siete insieme e non sentite il profumo delle frittelle?
Sono la zia Emily, vi ricordate di me? In quale pianeta siete finiti?
Presto, la cena è pronta, poi mi spiegherete quali segreti mi nascondete, non sono nata ieri, voglio sapere cosa vi rende cosi euforici.
Zia Emily, l'odore di soffritto arriva alla soffitta, arriviamoooo zietta bella, non urlare, ti abbiamo sentita, poi ti raccontiamo...

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Ore senza tempo e tempo senza ore nelle anfore segrete dei ricordi volavano trasportate dal bizzoso Eolo che con l’ausilio dei suoi venti raccontava storie ed emozioni. Esse si rincorrevano sui fili sottili dei pensieri e delle immaginazioni arrivando a rasentare il reale per sconfinare nell’irrealtà di mondi immaginifici. Gli orologi erano divenuti sostanze appese alle caverne del mai e un popolo di giganti li usava come segnali per convertire le ragioni in illusioni. 
Potrà mai la forza della poesia superare le barriere e mischiarsi nei racconti tanto cari ai quattro venti che d’ogni vita son padroni...

«Se dovessi rincorre la solitudine d'una luce accesa,
spegnerei quella clessidra di vetro,
da troppo tempo logorata dalla polvere d'una stella cadente».

Se avessi la forza di graffiare le infinite trame tessute
dalla tristezza scolpirei sulla sabbia i tuoi occhi di cristallo.
Se la malinconia d'un vascello in fuga verso l'orizzonte,
ascoltasse i nostri lamenti,
costruirei una piramide per racchiuderli dentro.
Se gli interminabili se che camminano insieme a noi,
rimanessero solo dei se,
troverei il coraggio di sussurrare il tuo nome al vento.

Se un raggio di sole riflettesse nel tuo sguardo il labirinto
che ci imprigiona,
vagherei per l'eternità alla ricerca del tuo amore.
Se ancora una volta potessi sfiorare con le mani il tuo viso,
resterei li fermo a osservarti per ore nel silenzio d'una tempesta.
Se negli stralci di queste frasi potessi cancellare le incertezze,
forse mi ritroverei accanto a te.
Se d'un tratto scomparissero i pupazzi di latta che volano
nelle stellate notti,
mi siederei ancora con te su quella panchina triste e fredda.
Nel sogno d'un sorriso annegherei il mio amore e con
infinita dolcezza cullerei i tuoi meravigliosi occhi di cristallo.

“Gocce di rugiada lentamente cadono giù dalle foglie,
sguardi lontani s'intrecciano,
s'osservano.
Piccole ombre nascondono il volto,
lontano un bagliore scopre gli occhi.
Immagini sbiadite,
lassù ritornano a vivere.
Burattini che corrono lungo il filo della vita.
Ridono, piangono,
muoiono.
Grida nel silenzio, qualcuno ascolta,
nell'oscurità occhi di cristallo brillano,
sorridono.
Ancora una notte è trascorsa,
una notte senza tempo”

La notte urla, il cuore sanguina, dove sei?
Ti cerco nei crepuscoli estivi,
ti cerco sulle spiagge deserte,
dove sei?
Il vento spazza via i tramonti lunari,
piega in due evanescenti realtà,
soffia sul tuo viso di rugiada,
dove sei?
E dove sono i tuoi occhi di cristallo?
Dirupi immensi intorno a me, scogliere di ghiaccio si sciolgono,
sussurrano il tuo nome.
Eternità latenti dipingono paesaggi lontani,
sprazzi d'azzurro cancellano i solchi della vita,
piccoli ramoscelli s'intrecciano,
tenere foglioline sorridono alla terra,
sensazioni fuggevoli piangono,
dove sei?
Echi dispersi nelle nebbie di tempeste stellari
ricordi velati da rigagnoli di sabbia,
fiumi di papaveri imbevuti di rosse emozioni ti invocano,
dove sei?.

Ti cerco ancora sulle rocce dei sentieri, sulle ali delle statue,
ti cerco nelle maree scolorite della sera,
ma invano grido,
mi dispero.
Invano mi ripeto,
amore dove sei?
Fruscii d'un tempo immaginario
soffiano lontano.
Sprazzi d'azzurro
scompaiono all'orizzonte.
Sogni persi nelle notturne tenebre,
ricordi sospesi,
immagini stampate
sulle onde dei mari.

Pensieri...
Solo delusioni
dimenticate in un angolo.
Guardavi lontano nel tempo,
rivedevi un volto,
ricordavi un sorriso.
Poi chiudevi gli occhi e sognavi.

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Profilo Autore: Giancarlo Gravili  

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Rapito dall'amore per la bellissima Sut (Sacerdotessa del Tempio di Sefor) Akenafis s'abbandona nella perdizione per lei.
Irraggiungibile come una Dea per lui diviene ossessione d'amore.
Nessuno, nemmeno il gran sacerdote del tempio, può sfiorare la purezza di Sut.
La perdizione eterna nel mondo dei non morti attende chi oserà violare questa sacralità.
La vicinanza con questo tormento diviene sempre più insopportabile per Akenafis che affida allo scrittura la sua violenta passione.

L'occhio dal cielo.

Scruta l'occhio dal cielo i segreti degli amanti e d'essi accoglie i lamenti nelle notti gelide dei deserti.
Scruta in silenzio Akenafis che legge le parole sacre.
Pulsa il cuore.
Muore la mente nella pazzia.
Arde la pelle nel non toccare, si scioglie come miele,
colando lentamente dalle pareti dell'amore.
A nulla servono i poteri,
a nulla serve il nulla che distrugge il sacerdote.
Ti avrò Sut,
sarai mia nella casa delle intenzioni,
nella valle dei lussuriosi,
nei sotterranei delle acque nere.
Vento del deserto spira nella notte.
Granelli inondano ciò che non vede.
Il buio divora morso dopo morso
il tremore della genesi.
Gli organi vitali si scuotono sotto i colpi
del male oscuro.
Oscura è l'alito della morte che sputa il suo veleno
sulla vita di Akenafis.
Io sono ombra.
Io sono destino.
Io sono Akenafis sacerdote del sacro tempio di Sefor
ora e sempre nel corridoio dell'oblio infinito.

Il terzo alito della cenere

Terzo di cenere
nel soffio.
Sguardo di carbone.
Affusolate le gambe
scuotono le sensazioni,
vibrano le percezioni.
Ti volti,
pietra fredda in me,
caldo amante sarò.
Sciolgo il nodo
del sole morente.
Mani affusolate
lasciano segni
sul manoscritto di sabbia e conchiglie.
Amami nel tramonto delle dune,
amami come amante del tempo defunto.
Quarto di templi
del deserto dell'eden illusorio.
Losanghe disegnate
di monde paure.
Lesene del decoro,
falso inganno,
fatuo sostegno
sono i tuoi modi.
Idillio della città perduta,
oh sacerdotessa del principio delle ipocrite verità.
Sarò così per te
fra archi d'oscuro
e monumenti del torbido
sarò cosi.
amante
del tuo perso dormire.

Labirinti di perversione.

“Labirinti di perversione
tu che in me sei ossessione.
Trancio serpenti ingoiando occhi.
Scruta il falco nella notte,
il fiume dei morti ribolle d' anime.
Passi inconsistenti appaiono.
Labbra infuocate nel destino del suono.
Sfioro turgide emozioni,
sigillo in tombe mere passioni.
Re del trapassato pensiero,
manovro le membra dell'uomo.
Osservo le fattezze tue.
Nelle trasparenze m'immergo
per morire rinascendo.
Siano notti nella lussuria del dio Amos,
siano effluvi della disciplina di Sefor.
Siano corpi privi di sembianze,
nel contorcersi dell'essenza del peccato.
Io sono nel sibilo del vento
che attraversa le tue vesti,
io sono acqua che nelle tue forme si compiace,
freddo come il mondo che non esiste,
caldo come l'anfora del divino nettare.
Io sono privo d'inizio,
senza orizzonti finiti.
Io sono tramonto sul Nilo.
Io sono luce delle parole,
io sono freccia persa
nella valle del fremito,
nei sentieri della tua pelle di luna,
nell'arco delle infinite perdizioni.
Io sono Akenafis signore del silenzio,
padrone dei vasi sacri,
custode dei segreti dell'immortalità,
io sono tutto e nulla,
sono in ogni dove e in nessun luogo.
Sono quello che sono,
schiavo dei tuoi occhi di smeraldo,
oh mia regina Sut”

Io sono.

Io sono,
quello che sono.
Signore del mondo dell'oltre,
padrone delle tenebre di Assurbal.
Tra rive di reconditi perché mi ritrovai
e cascate di nubi
sorte dove non erano tentazioni.
Io che del corpo tralasciai discipline
per essere empio e poco.
Cercai il colmo
d'un bicchiere vuoto.
Come fiori d'un deserto
assaggiai il corso del sapere
avidamente affamato,
digiuno dell'universale moto.
Seppi di te,
oh dea,
amante di perdute reminiscenze.
Da te venni a imparare
turgide carezze nel bagno del peccato.
Bevvi da infuocati seni,
l'arte della incoscienza
perdendomi nel tempio dell'oblio.
Io che vissi morendo,
fui vita quando morte colse
il senso del nonsenso.
Quando l'abbandono nel tuo flessuoso velluto
mi rese avido di te.
D'avorio e mirra vestii le mie mani,
d'oro furono i gemiti,
di mosto e miele
fu il succo dell'amore.
Ventagli di spezie adornarono il pulsare,
onde del mare s'infransero nella calma d'obliate lagune,
scrosci di tempeste mi inebriarono del tuo amplesso.
Fui tutto in un momento.
Fui esistenza,
spegnendomi in quel momento.
Mai più vissi,
mai più compresi.
Lasciai la foresta delle gocce di lussuria,
lasciai il tramonto sui tuoi occhi d'argilla pura,
mi specchiai nel regno del mirto in fiore.
Divenni fiore
dell'oscurità
per esser preda
d'un convulso esistere.
Divenni lacrima per bagnare il tuo viso.
Divenni sole per prosciugare la tua sete.
Divenni effimera sospensione d' acque di rugiada
per acquietare i tuoi sensi.
Divenni emisfero di luce
per illuminare il tuo lato oscuro,
Infine divenni ombra per ghermire le tue sembianze
e custodirle nel mio paradiso dei sensi.

Trascorro il tempo.
Akenafis s'abbandona a se stesso nella dolcezza dell'amore impossibile.

“Trascorro il tempo
sospeso tra il crepuscolo che abbraccia il mare
e le tue labbra rosso fuoco.
Intreccio le onde
con i tuoi capelli scuri come profonde acque.
Freme l'aria,
scossa da fulmini e tuoni.
Freme la tempesta che sferza il cuore.
Solco le acque senza timore
per giungere da te,
mia regina.
Spargerò d'ambrosia il sentiero degli dei.
Trasformerò in oro i calici in cui berrai
il nettare dell'amore.
Riempirò le otri di novello succo.
Miele sarò per i tuoi sensi.
Sarà amore a far germogliare aridi deserti,
sarà amore,
per sempre scritto sulle pietre dei templi,
che al vento offrono passioni e desideri”.

Akenafis s'addormenta nel desiderio e la sua passione diviene amore puro.

Dolce miele,
delizia della mia lussuria,
di te mi nutro in ozio
saziando l'insaziabile,
estinguendo il pulsante tremare del desiderio.
Tu che sei rovente sabbia del mio crogiolo,
lascia che io ti assapori fino all'ultimo lembo,
lascia che io stenda le mie mani sul tuo inebriante
profumo.
Lascia che il notturno gemere svegli l'universo
dal suo oscuro torpore,
lascia che io sia quello che sono:
l'amante tuo.
Amore se mai accarezzerò
il colore della vita,
ascolta le frasi scolpite nella mia pazzia.
Ascolta il torrente di solitudine
che scorre nel mio cuore.
Ascolta il lamento del mare
che sussurra nenie dimenticate.
Oceani confusi
oltre l'orizzonte danzano nella libidine.
Laggiù l'eco s'inchina al tuo splendore.
Laggiù la profondità dei tuoi movimenti
innalza le onde delle nostre paure.

Ultimo atto la morte

Akenafis si sveglia dal sonno dell'oblio e nel tormento assoluto decide di suicidarsi con il veleno.

Ancora una volta
attraverserò le più remote regioni dell'impossibile,
per stringere a me l'origine del peccato.
Tu che fosti mio peccato
tu che silente ascoltasti il mio ultimo “ti amo”,
cantato per te.
Ascolta ora il mio ultimo respiro oh mia regina.

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Un mattino mi recai da un ottico, alla ricerca di un paio di occhiali per vedere finalmente DIO! Ne provai a decine, a centinaia! Ma con nessun paio potevo vedere dio. Andai allora da un altro ottico: stessa triste storia, dio non si vedeva con nessuna lente! Feci visita ad altri dieci, venti, trenta ottici! Niente da fare, non trovai occhiali per vedere dio! Cominciai a dubitare dei miei occhi, così feci molte visite oculistiche, ma nessun dottore mi trovò difetti di visione. Presa dallo sconforto, decisi di distrarmi facendo una passeggiata in campagna. C'era un sole fortissimo, mi dava noia agli occhi, così indossai degli occhiali da sole. Dopo averli indossati, il sole smise di accecarmi, così potei guardare meglio e tutto divenne più chiaro: compresi finalmente che dio è solo un abbaglio, ma non abbaglia gli occhi, bensì la mente! Non lo vedremo mai perché non esiste, non ci vuole bene, perché semplicemente non c'è. Dobbiamo volerci bene noi. Solo liberi dall'abbaglio si comincia a vivere davvero.
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