La strada non era così rumorosa come oggi. Al contrario un po' di rumore ti teneva compagnia. Certamente non tenevi le finestre chiuse a bloccare il rumore di una vita attiva che proveniva dalla strada. Potevi riconoscere l'arrivo del 96 crociato, o del 96 nero, dal rumore dei loro potenti motori. E quando i due autobus: uno proveniente dalla strada principale: la Portuense, e l'altro giungere dal vecchio mercato, si incrociavano, giusto sotto le finestre del nostro primo piano, subito ci affacciavamo per vedere come i due abili autisti, districavano i loro pesanti mezzi nel poco spazio a disposizione; via divenuta a senso unico, solo decenni e decenni dopo. Alcune volte provavi a prendere il bus prima delle 8,00 della mattina per pagare di meno: solo 5 lire. Dopo tale orario il prezzo saliva a dieci, quindici o anche venti lire: non ricordo. Quando un uomo di colore, passava sul versante opposto del marciapiede, ci si chiamava fra noi bambini, con una certa enfasi, e ci si affacciava di corsa alla finestra del saloncino esclamando: "...un negro; un negro! Sta passando un negro". Ma usare quel termine, ai nostri tempi non era una offesa, e se anche a nostra insaputa lo fosse stata, prevaleva per noi lo stupore ed il fascino, ma non certo l'intenzione dell'additare. Seguitavamo i suoi passi e lo guardavamo con uno sguardo affascinato, ed il nostro chiacchiericcio diveniva silenzio. Il respiro si fermava, fino a che i nostri occhi lo vedevano attraversare la Portuense. Poi il respiro tornava ad essere a ritmo normale così come il nostro chiacchierare, scordandoci completamente dell'uomo nero. Se ero solo, nel piccolo saloncino, godevo del suono delle campane della Chiesa di Santa Silvia. Ma a quel tempo la Chiesa, molto più piccola della odierna che ha mantenuto lo stesso nome della Santa, non era giù, più avanti, lì in quello slargo dove ora è; era lungo la nostra stessa via: Via Pietro Venturi. Si era in pochi. Si; si era in pochi. Dappertutto si era in pochi: sugli autobus la mattina; lungo le vie; nei negozi, e così anche in Chiesa. Una volta a settimana...ora non saprei dirti in che periodo, ma comunque in estate, o nelle primavere, si recitava il Rosario lì, in Santa Silvia, e Don Fosco chiamava a turno i fedeli, nella recitazione delle dieci Ave Marie. Solo una volta fui chiamato io, che poi in verità, con la mia timidezza che sempre mi ha caratterizzato, le Ave Marie le dicevo con l'intenzione di non essere mai chiamato. Comunque dicevo: fui chiamato dal Parroco solo una volta, e quella volta ne dissi intenzionalmente undici e, manco a dirlo, dopo, a fine Rosario, una volta usciti, un conoscente: un ragazzino della mia età, mi disse: "ne hai dette undici!". E si, che vuoi! Le cose importanti sono e sempre saranno queste: queste inutili sfumature: come fu portata per giorni interi, [mi riferisco però adesso a soli alcuni anni fa], l'attenzione su calzini colorati che, in una importante intervista televisiva, indossava l'onorevole ospite, a cui fu richiesta la propria opinione su un tema fondamentale. Si: vero! Per alcuni giorni si parlò dei calzini colorati dell’onorevole intervistato. Per distogliere l’attenzione da un problema importante? Così sempliciotti siamo? Così sciocchino mi hanno fatto? Oppure ci provano. Ma sembra che ben ci riescano! Così io, avevo detto l'undicesima Ave Maria a causa del solito timore di sbagliare qualcosa; forse pensavo: meglio una in più che una in meno o forse, con una Ave Maria in più credevo di conquistarmi il Paradiso. Solo che, penso, a quella nostra età, dove il blu del cielo era limpido, dove ti potevi permettere di tirare un calcio al pallone con la punta della scarpa, o quando vedevi il gobbo provenire dall'inizio della via, che ci sorrideva e noi si scappava prima che arrivasse, forse contare undici Ave Maria e poi sottolinearlo, era cosa della nostra età. In verità potevi sentire il rintocco delle campane, sempre: sia quando eri in compagnia degli amici, in saloncino; sia se fossi stato da solo; forse con la differenza che, se fosti stato da solo, quel din-don ti invadeva il cuore e ti riempiva l'anima.
Il riflesso del sole, sulle finestre del palazzo di fronte, quello costruito leggermente sulla sinistra rispetto al nostro, mi diceva l'ora in quei tiepidi pomeriggi primaverili. Nel tardo pomeriggio, la signora al terzo piano, apriva la porta finestra e posava il suo raccogli immondizia e la scopa, all'angolo del suo terrazzino; e l'ondulare del riflesso del sole sul vetro che appena si scostava, era la danza di un'onda colorata di un rosa tramonto abbracciata all'azzurro poco più intenso e delicato che preannunciava le tiepide e piacevoli serate di quelle primavere. Alcune bestemmie, che fuoriuscivano dalla porta dell'Osteria sottostante, salivano ad incontrare alcune lenzuola da un bianco quasi candido, stese ai fili ad asciugare al leggero soffio tiepido del sottile vento; e quei panni stesi, nell'incontrare quelle bestemmie, divenivano di un bianco esattamente come il Tide o il Dash o l'Olà lo enunciava nelle pubblicità, poi un soffio di vento poco più deciso, scuoteva leggermente le lenzuola che lanciavano quelle imprecazioni in cielo trasformandole in ringraziamenti, in sorrisi, in gioia, in preghiera. E così era: perché da lì a poco sentivi lo scoppio di una risata e l'urlo di una: "Briscola!", o anche: "Scopa!" o addirittura: "...Ancora un quarto Bettina!". Pensavo: "Perché allora nel Tide, nel Sil, Dash o anche nell'Olà, non ci infilano direttamente le bestemmie: tutto diverrebbe subito bianco. Si: forse sarebbe stato così, ma non ci sarebbe stata la poesia. Tutto sarebbe stato bianco, e mai avresti visto un colore. Ed iniziavo a conoscere i colori, anche i meno...colorati: non era più un bianco candido, Claudio investito dalla automobile; o quei poveri cani randagi accalappiati dagli accalappiacani che alcune volte vedevo impauriti, terrorizzati, e poi soffocati dai fil di ferro e caricati a forza sul mezzo del Comune che li avrebbe condotti alle camere a gas; quel bianco iniziava ad assumere un colore: scuro; marrone; anche nero ma: un bianco, per diventare bianco, deve pur avere un confronto. E noi che si chiedeva alle nostre madri di acquistare i bidoni di Dash, che ad altezza differente segavamo cosicché causassero un timbro diverso nel percuoterli, e ci dilettavamo ad usarli a mo' di batteria con la relativa disperazione dei vicini.
Così, la signora, posato all'angolo del suo terrazzino l'alza immondizia e la scopa, si soffermava ad osservare quei tramonti, al di là del Forte Portuense: un breve rialzo, a mo' di collinetta, al di là del Garage di Vittorio. Il suo sguardo, perso nel sole che scendeva lentamente, lo avrei ritrovato nello sguardo di Anthony Hopkins in: "Quel che resta del giorno" nel concedersi di spaziare per solo alcuni istanti al di là dei mattoni del Castello, e tornando subito dopo, nell'accostare le persiane, al suo sguardo di dovere. Alcune volte penso che film e attori come lui, mi riportano indietro nel tempo. Ecco perché alcuni attori possono essere definiti attori.
Anche se non aspettavo alcuno, [magari assorto ad ascoltare Aretha Franklin o forse Shal Shapiro dei Rokes, o magari Caterina Caselli], il citofono suonava, e nella mia cameretta entrava sempre qualche amico dei pochi che avevo.
A un angolo di strada, più spesso assieme a mia zia Renata, andavo a prendere il gelato, alla Pasticcera "Pinelli", dove il gelato aveva sempre un gusto nuovo e diverso.
A notte inoltrata, un uomo usciva dal garage di Vittorio, tirando pesanti carretti lungo la leggera salita: carretti lunghi, troppo lunghi; e larghi, troppo larghi per una persona. Dietro ai carri si: c'era una donna che spingeva. Alcune volte i due si alternavano; chi nello spingere e chi nel tirare; ma il peso restava quello: un peso delle notti inoltrate; molto prima dell'alba; il peso del sonno breve; un peso dalla vita dura. Un primo carretto pieno di verdura fresca; un secondo di frutta; e sembrava non finissero mai. Alcune volte cercavo di restar sveglio o almeno, di svegliarmi al suono ritmato delle ruote in legno dei carri, ruote avvolte nella loro circonferenza dal metallo.
Così, seppur stanco ed assonnato, potevo vedere, attraverso le liste della serranda, i carri che arrancavano in salita. Uno alla volta: certo. Sono certo che fossi l'unico a svegliarmi appositamente a quell'ora: volevo vedere la donna più bella che mai abbia visto; sono certo che fossi l'unico a guardare, per via dell'ora tarda, quella vita sospesa tra chiarore della luna e stelle lucenti nelle notti primaverili, e asfalto grigio e spento che ricopriva la breve e faticosa salita del Garage. Belle donne tutti le potevano vedere durante il giorno; ma un Angelo notturno quale essa era...no: era quasi impossibile vederlo. Una donna molto bassa: raggiungeva la mia altezza che avevo intorno ai dieci anni; grassa a somigliare ad un tricheco; sapete: un pezzo di pizza sazia e gonfia. Con un color nero di pelle che non credo alcun pittore sia degno di raggiungere un nero così vissuto, intenso, vero; e butterata su tutto il viso. Filomena. L'uomo no; non ricordo come si chiamasse: magro e potente nella sua delicatezza ed arrendevolezza alla vita. Alcune volte, nel recarmi all'ultimo spettacolo del Leblon: li vedevo seduti, l'uno accanto all'altro, e non riuscivo nel capacitarmi come facessero a far mezzanotte, [questo l'orario di fine film iniziato alle 22,30] quando poi, dopo poche ore, già dovevano iniziare la loro faticosa vita quotidiana. Si: credo che per dipingere quella pelle così nera, si debba dormire fra i carretti del mercato, stesi in terra su materassi improvvisati; credo che si debba usare un bagno del garage di Vittorio, chiedendo il permesso, per anni ed anni, credo che si debba pregare ogni notte per raggiungere la fine della leggera salita del garage con carichi del genere; ah! Si! dimenticavo: ma un Angelo è venuto dal cielo appositamente per aiutare il suo uomo. Filomena: questo il nome scelto dall'Angelo. Ma certo: non si può pronunciare questo nome con facilità, con semplicità: ne devi aver davvero bisogno. E forse neanche è necessario pronunciare il suo nome, così come non lo pronunciava il suo uomo, perché Filomena, quel carro una volta lo trainava con tutta sé stessa; ed una volta lo spingeva con tutte le sue forze. Si: forse Filomena già sapeva e ancora sa di cosa un uomo necessita: essere spinto... o trainato.
Il nome dell'uomo? No, non lo ricordo; o forse non l'ho mai voluto ricordare: troppo duro ricordare certi nomi.
Ricordo...si vero: ora divago un pochino, ma forse l'idea la rendo. Ero...non ricordo...in un posto…Andai a vedere una mostra, non era il caso per me ricordare un artista o, lasciatemelo dire uno pseudo artista, che vuole raccontare le disavventure di coloro che fuggono dall'Africa assemblando infradito spaiati, consunti, rotti, ammucchiati. O disponendo ferri vari, lavorati, imbullonati o saldati tra loro a mo' di fucili e mitragliatrici a cercar di rappresentare le guerre nel mondo. Eh No! Non ci sto! Per assemblare alcuni infradito spaiati, rovinati, consunti, e per imprimere nel visitatore della mostra ciò che devi dire, ciò che hai l'obbligo di comunicare se artista dici di essere, quegli infradito, li devi aver usati mesi e mesi, anni ed anni. Ci devi essere andato alle tue cene di gala caro il mio artista, alle feste, forse con pantaloni decenti, o anche buoni perché no? Ma devi assorbire nei tuoi piedi e nelle tue gambe quel significato che vorresti trasmettere...o forse non vuoi trasmettere nulla? Devi sentire nei tuoi piedi tutta la strada che quegli infradito, quelle scarpe rotte, senza più suola, hanno vissuto. O: per posizionare due forchette su una cartina geografica, acquistata in cartoleria del centro, [visto quanto era la mappa grande, colorata, specifica, ben fatta nei particolari], e posizionare poi due forchette: l'una sull'Africa e l'altra sulla Spagna, devi forse aver digiunato un paio di settimane a sola acqua, come chi è fuggito da un posto per raggiungerne un altro ha fatto? O forse hai fatto colazione da Tiffani? beh! Certo...un bel po' di rabbia vien fuori nel vedere che addirittura certe superficialità fanno parte di una mostra. Lucio Fontana? Ah no! Un momento! Ho visto un taglio di Lucio Fontana; non sono un critico, non sono nessuno ma di fronte un taglio di Fontana ci sono rimasto quaranta minuti e ho sentito qualcosa; anzi molto. Ad un taglio del genere non saprei mai e poi mai imprimere quel significato, quella vita vissuta; quella intensità. Ma torniamo al mio Angelo; anzi: all'Angelo dell'uomo dei carretti.
E così, per dipingere quel nero della pelle di un Angelo quale Filomena era, ed è, il pittore deve aver vissuto nella immondizia e sentire il nero che si va ad accumulare giorno per giorno, settimana per settimana e mese per mese sulla propria pelle. Ricordo il nome del suo Angelo: Filomena. Ma quel nome non si può neanche scrivere spesso. Ma il nome del suo protetto no: non lo ricordo, o forse meglio non ricordare certi nomi dalla esistenza dura.
Come quel ragazzo...?
Quel ragazzo dalla espressione triste, che assieme al padre e, a fianco a lui: l'uno stringendo un braccio del carretto e l'altro stringendo l'altro manico, trainavano il vecchio e usurato carretto raccogliendo cartoni. Li incontravo alcune volte in Viale Trastevere o in quei vicoli limitrofi. Non erano più quelle primavere del mio tempo: già passate; parlo di molti molti anni dopo; ma l'espressione del ragazzo...quella espressione di vita a senso unico, lì: in un viale a raccogliere cartoni e quanti? Per poter mangiare qualcosa...quelle espressioni non hanno primavere. L'espressione del padre no: la sua era...era quella: l'espressione di un uomo che raccoglie cartoni; sa che quello deve fare e quello fa. Si vero: anni dopo e, per il momento, torno alle primavere del mio tempo. Solo sai? Sono immagini che è inevitabile non riportare nella mente: giungono con decisione e sai che forgiano la vita. Senza quelle immagini le primavere non avrebbero significato; quindi, anche se appartengono a periodo diversi...si devono riportare.
Pensavo che per conoscere Angeli come lei, [ora basta scrivere il suo nome], dovessi vivere accanto alla spazzatura, al carretto del mercato, con gente umile. Non ho mai sentito parlare i due. Forse erano muti? O forse non si ha più nulla da dire. O forse si dice tutto con il fare e non più con le parole.
La strada dove abitavo, Via Pietro Venturi, era piena tra: Osteria che serviva vino, [credo annacquato quel tanto. Quel tanto da farlo diventare un po’ troppo pallido], giochi di biglie, corse di pattini a rotelle, bocce lanciate dai più anziani, motori rombanti, processioni cattoliche con relative coperte distese sui davanzali delle finestre; risate, blasfemie, ragazzi che chiacchieravano e ridevano e, con sguardo fisso si diceva qualcosa alle ragazze con le loro prime minigonne; gruppi di persone che guardavano i primi programmi televisivi nelle prime televisioni in vendita, esposte nelle vetrine dei negozi di elettrodomestici, e anche senza cogliere le voci del presentatore o della pubblicità, si restava ammaliati dalle sole immagini in bianco e nero che scorrevano al di là del vetro. Una buona distanza tra piccoli assembramenti al di qua della vetrina, e schermo del televisore posto all’interno del negozio; distanza che presto si sarebbe annullata conglobando lo spettatore nello stesso schermo. Ma forse, i programmi che allora iniziavano, entravano con gentilezza nelle nostre case. Con la semplicità ed eleganza di Mario Riva e del suo Musichiere. C’era spazio sui marciapiedi per lanciare i tappi delle birre, giocare a campana, o rivoltare le figurine Panini con il soffio della palma della mano. Scritte sui muri fatti con i gessetti bianchi. Era normale allora chiedere un po' di pane al vicino, quella volta che per un qualunque motivo non lo avevi in casa; il netturbino andava porta a porta a raccogliere la spazzatura con il suo sacco unto, e saliva anche quattro o cinque piani di scale a svuotare i secchi posti fuori dalle porte condominiali. Il calcio era ancora uno sport divertente, senza violenza, la gente usciva felice dallo stadio, sugli autobus si vedevano le bandiere sventolare fuori dai finestrini.
Viva il re o, Pertini Papa: ma certo…scritte scherzose e fuori tempo da questo mio dire. Ma alcuni anni dopo questo dire del mio tempo, le primavere cambiarono, e su di un muro, sulla Portuense, vidi la scritta: dieci, cento Paparelli…E così finirono le primavere.
------------Tutto per la casa--------------
Un piccolo grande negozio. Ti ricordi la pasticceria Pinelli? Devi attraversare la strada; non verso l'edicola, ma andando in discesa. Passa ora davanti al parrucchiere. Solo ancora pochi passi: fermati! Ecco: "Tutto per la casa". Ti ricordi dove abitavano i proprietari? Lì poco prima dello "Lo scalino del Cardinale"? Non importa: dopotutto era il momento in cui avresti potuto attraversare la via principale, la Portuense, a occhi chiusi; quello che si faceva io e mia sorella: il momento in cui puoi giocare con la vita; ma non era molto pericoloso; anzi: affatto! Avresti potuto sentire il rumore delle auto arrivare da molto lontano: un'auto, ogni tanto. E la Portuense era al di sopra di Via Pietro Venturi: dovevi scendere almeno sette gradini per raggiungere Via Pietro Venturi da lì. Quindi…non eri nata…non potevi sapere dove abitavano i proprietari di "Tutto per la casa". “Tutto per la casa”, un piccolo grande negozio pieno di cose inutili: bambole di misera plastica; eroi con pesanti e poveri mantelli di plastica che non avrebbero permesso all'eroe di alzarsi in volo; secchielli per la spiaggia, come se qualcuno avesse sabbia e mare in casa. A volte avresti potuto trovare qualcosa di utile per la casa: forse qualcosa di utile c'era; come "Tide": il sapone per lavatrice. Anche il nome di quel detersivo per bucato ti permetteva di sognare. Come in effetti è diventato un sogno scritto e suonato da Robert Maxwell e Carl Sigman nel 1953: "Ebb Tide"…o forse l’opposto? Non è importante. L'importante era sognare. "Tutto per la casa"? O tutto per noi bambini? Ho assaggiato quel detersivo per lavatrice: aveva un sapore chimico; ma forse senza conoscere il significato della parola "Tide", ero già su un'onda: puntini blu, su colline innevate. "Tutto per la casa" aveva anche la "mucca Carolina", ma abbastanza per sostenere il peso leggero di un bambino. Pensi che potrebbe essere qualcosa di più importante per un bambino che cavalcare una mucca di plastica; e che, per giunta, si chiama: “Carolina”? Cosa desideri di più? Anche una mamma che ti chiama per pranzo; e avere un angelo custode rude ma affettuoso che ti accompagna a casa. "Tide", il detersivo per lavatrice, con puntini verdi e blue, e che ovviamente lo si pronunciava all'italiana: /Tide/.
----------Lo scalino del Cardinale-----------
A quei tempi era già un'Osteria Antica. Lo spazio del marmo di uno dei tre gradini, dove si appoggiava il piede destro, era caldo, liscio e smerigliato, leggermente più bianco del resto del marmo. Questo piccolo spazio di marmo, quindi di poco sulla destra dell’intero gradino, ospitava il passaggio di centinaia e centinaia di stivali, scarpe; o anche piedi scalzi, poveri; ma era normale vedere uomini scalzi, [no; non ai miei tempi; sto dicendo prima delle mie primavere; ma..."lo Scalino del Cardinale"...già aveva centinaia di anni]; ecco: quel pezzo di marmo, sembrava almeno due centimetri più basso del resto. Era uno spettacolo ammirare quel gradino. Se ti avvicinavi con l’orecchio a quel gradino, potevi sentire litigi; vedere accoltellamenti fuori da quel luogo nel XIX secolo; e dentro risate, scherzi, carte da gioco sbattute sui tavoli. Giochi di dadi; donne scambiate tra uomini ubriachi. E talleri; scudi; papetti e lire che entravano nelle tasche di donne alcolizzate anche loro. Chi diavolo? Ma chi diavolo avrebbe potuto rimuovere quel gradino? O forse stuccare quel pezzo; levigare il tutto e renderlo paro; paro, agibile, come la legge vuole; pari agli altri due. Ora, "Lo scalino del Cardinale" è un ristorante anonimo; senza vita: senza storia; come può il cibo avere un buon sapore ora? Solo l'aspetto delle persone che lo frequentano; solo le auto di lusso parcheggiate lì fuori. Dove sono i muli, i cavalli; gli stivali infangati? E dove sono quelle gocce di sangue sul gradino? Rimane solo il nome del luogo: senza vita; senza storia: tutto paro; tutto uguale; come quei gradini che invece avrebbero seguitato a raccontare e raccontare ancora. Per legge, i gradini sono ora tutti uguali; e forse, “per legge”, tutti coloro che frequentano quel posto. Non molto tempo fa ci entrai anche io; ma solo per…per entrare nuovamente in quel luogo che portava quel nome: tutto diverso manco a dirlo. Si avvicinò il cameriere; ora dire: -si avvicinò il Maitre ai vini- sarebbe un po’ eccessivo. Si avvicinò il cameriere e mi versò un sorso di vino nel bicchiere affinché lo assaggiassi. In quell’istante, nei miei occhi apparve…[non ricordo ora il nome del ragazzo compagno di scuola]; nel momento in cui la maestra Anna Febbraro, chiese alla classe: “cosa fanno i vostri padri? Che lavoro fanno? Inizia tu: che lavoro fa tuo padre?”. E il primo rispose. Poi toccò al secondo, che rispose a sua volta; e così il terzo; poi giunse…quel ragazzo o meglio dire ragazzino, e rispose: “mio padre fa il commerciante in mobili”. Anna Febbraro non capì; ma non capì davvero, così di rimando chiese: “Cosa?”, e il ragazzo rispose: “Stracciarolo”. E si proseguì. L’altro era il figlio del Ferramenta; l’altro il figlio del calzolaio; l’altro il figlio del portiere di notte e l’altro non aveva padre. Mio padre? No: questo non è interessante al fine di vedere Via Pietro Venturi nel 1965 e le primavere di quel periodo. Ma una cosa la voglio dire su mio padre: rallentava agli incroci. Quanto prima, solo per dire che, quando il Maitre versò un po’ di vino avvolgendo la bottiglia con il tovagliolo bianco e la mano destra verso il fondo della stessa, indirizzando il collo al centro del calice con la sinistra, avendo cura che l’etichetta fosse rivolta verso il mio viso, non feci caso alla marca e, nella mia fantasia, vidi il figlio dello stracciarolo e il di lui padre, che anche conoscevo; di vista sì, vero; ma pur conoscevo, che tracannava un bicchiere di bianco. Così sorrisi e feci un cenno di assenso al cameriere senza neppur guardare il vino versato. Ovviamente restò un momento esterrefatto; poi versò da bere. Non mi permisi di assaggiare quel vino; avrei mancato di rispetto a chi un vino, decenni e decenni prima lo assorbiva come una spugna giusto per attraversare la giornata; giusto per portarla a termine; o forse per dimenticarla.
Non è quindi più oggi: “ Lo Scalino del Cardinale”; è un gradino come tanti altri. Per omaggiare lo stracciarolo, il figlio e chi altri, quella sera dove i tavoli accanto usavano la “r” moscia, tracannai quel calice che da solo avevo riempito. Posai il bicchiere sulla candida tovaglia, e fissai il piatto vuoto in attesa del primo. Chi con me era seduto allo stesso tavolo da quattro, mi confidò, quasi subito, e durante la cena, che alcuni, o almeno una ragazza, mi fissava con espressione sbalordita, di sconcerto, comunicando al suo compagno seduto di fronte a lei, e ai suoi amici, tutto il suo sbigottimento riguardo il mio fare e il tipo di compagnia di cui godevo. Michele: capelli lunghi, bianchi con coda di cavallo: un vecchio rockettaro senza più denti che, costretto a succhiare il brodo, emanava un rumore di sottofondo a mo’ di sibilo come un russare. Rita: una donna grassa che occupava due sedie e faceva stretching allungando le braccia paffute ad occupare tutto il tavolo, spostando il pane e lasciando cadere in terra un tovagliolo che si: con grande signorilità lì in terra lasciò. Ora si che ero al: “Lo Scalino del Cardinale”.
Ecco: esci dal ristorante...ma lascia che ancora la chiami: "Osteria"; gira a sinistra, fai sei passi. Lì abitavano i proprietari di: "Tutto per la casa".
-------------il giornalaio cieco-------------
Era un uomo alto e forte. Sempre vestito di nero. Sfiorava la spalla di sua moglie per raggiungere l'edicola, ed era quindi condotto da una donna…come tutti gli uomini. Niente di particolare; tranne che era sempre vestito di nero. Sfiorava leggermente, con la mano destra, la spalla sinistra della donna, che sicura lo indirizzava. Arrivava all'edicola nella tarda mattinata, verso le dieci. La donna lasciava per un attimo il suo chiosco a una persona di fiducia, e andava a prendere l'uomo. O forse il cieco era di corporatura e altezza normale; e io lo vedevo grande da bambino che ero. Cosa si può dire di un uomo che non vede, sempre silenzioso, immobile e seduto sulla sua sedia? Forse anche lui spingeva avanti il suo mondo. Se ricordi, l'edicola era di fronte al negozio di alimentari: Il secondo negozio di alimentari intendo: voglio dire che il primo negozio di alimentari invece, quello più famoso, quello storico, quello appunto degli anni ’60, era gestito dalla famiglia "Magrelli". Vedevo il padre e la madre di Enzo Magrelli, e suo fratello Augusto, seduti lì, all’ingresso degli Alimentari, all’angolo, aspettando le 8,00 di sera, che i figli chiudessero per tornare tutti assieme a casa. Quindi, l'edicola si trovava di fronte al secondo negozio di alimentari; quello aperto solo successivamente; mi capisci? Quello meno storico insomma, quello di Claudio. Non so nulla della vita del giornalaio cieco, ma posso improvvisare; e forse non è impossibile; e potrebbe essere facile. L'uomo accennava un leggero sorriso mentre riconosceva la voce dei clienti. Lo notavo: niente di questo sto immaginando. E quando qualcuno chiedeva: "Il Messaggero", era l'uomo a porgere il giornale alla moglie che ovviamente aveva ripreso il suo posto, la quale, a sua volta, lo porgeva al cliente. “Il Messaggero”, “Il Tempo” e [“Paese sera”, nel pomeriggio], erano posizionati accanto all’uomo cieco. L'abito nero; sempre pulito, elegante e nero. Poteva –vedere- bene l'altezza del cliente; l'età; la sua condizione sociale; il suo stato d'animo; il suo carattere; questo solo dal suono; dal timbro della voce della persona di fronte a lui al di là del chiosco; e forse, anche dal giornale che preferiva leggere. Io, e forse chiunque altri, potevamo vedere solo il fisico di un passante, dell'uomo o della donna per strada; non si poteva sapere nulla dello stato d'animo dell’uomo della strada che incrociavi. Né per mezzo del tono o dal timbro della voce, né la condizione sociale. Si passava, come si passa oggi, e la persona passa: la incroci e vai via. Mi chiedo chi dei due era più cieco? Quello vestito di nero o io? O altri?
Un tempo si fischiava. Sentivi fischiare alcuni motivetti dai passanti; sono decenni che non sento più alcuno che fischia nel camminare. Quanto tempo ha avuto quel giornalaio per vedere le foglie autunnali scivolare dagli alberi? O forse in guerra ha avuto solo il tempo di vedere le foglie ardere vive sugli alberi? Forse ha perso la vista in guerra? O forse l'ha preferita perdere. E dove andavo di fretta nelle mie primavere, e dove di fretta gli altri: ieri un po' più lenti, ma ciechi; oggi ciechi, e di fretta. Spostando le foglie e pensando solo ad arrivare in tempo? Chi è più cieco?
---------------------------------------------Un campo di broccoletti.---------------------------------
Nelle nostre Primavere…non c’era il Paradiso. Forse vivevi e basta…nessuna domanda.
Era, il Paradiso, solo insegnato nella teoria: nel fare dottrina. Dottrina che poi si sarebbe dovuta concretizzare nel Catechismo. Forse, se proprio ti capitava di volerne parlare con un amichetto…chissà cosa si diceva riguardo il Paradiso. Ma certo che non ci pensavi al Paradiso! Di tanto in tanto arrivavano le giostre. Mi piacevano moltissimo le giostre. Anche ora in verità. Mi piacevano i calcinculo. I seggiolini per intenderci. Avessi mai preso il fiocco! I go-Kart. Le macchinette an’tuzzo: dicesi macchinette a scontro, se non eri in Via Pietro Venturi o al Portuense, o a Roma. Quei ragazzi più smaliziati; il tiro a segno, la palla dove tiravi i pugni e ti segnava quanto eri forte. Così come le corna del toro che dovevi avvicinare tra loro e ti segnavano la tua forza: signorina, fiacco, normale, forte, fortissimo, torero, toro.
Eppure ora so cosa è il Paradiso. Ce lo ha detto Ninetto Davoli in una intervista a lui rivolta. E nessuno si permise poi di parlare di calzini colorati o chissà cos’altro. Alla domanda: “cosa è per lei il Paradiso?”, Ninetto si fermò neanche un istante, immediato com’è. Poi…distese il braccio sinistro da destra a sinistra e disse: “il Paradiso è un campo di broccoletti”. Eh già, certo: chi meglio di loro sa e conosce il Paradiso? Loro? Loro chi? Ninetto, Sergio, Franco. Chi altri altrimenti? I fuoriclasse.
Il Bar Italia; Vicolo della serpe…sì certo che ti andrò a dire. Ma ora metti su: “Golden Slumbers” e facciamo la pausa tè. Ah! Ma sai si dice che Vittorio, il giorno successivo alla sua morte…fu visto da qualcuno, nella sua tuta da garagista lì, in piedi all’angolo del suo Garage dove spesso si riposava a prendere un po’ di luce del pomeriggio.
Diconsiglio?
...Diconsiglio?...Come accidenti fai a sapere il suo nome? Ma...ma sto parlando degli anni '60 e...e tu sai il nome del mio compagno di scuola? Come fai a sapere il nome del figlio dello stracciarolo? Ehi! Dico a te ragazzina! Ma come fai a sapere il nome del figlio dello stracciarolo? Rispondi accidenti!
Non potevi pronunciare quel nome vero?...Così l'ho chiamato io per te. Forse meglio non pronunciare mai certi nomi; o forse meglio non ricordarli. Latte o limone?
In effetti la mia notte non era certo uguale a quella della mia vicina di letto, una povera donna di quasi ottant’anni malata di Alzheimer e di non so più quale malattia per la quale era stata portata in ospedale dalla figlia. Una notte la sua fatta di continui tentativi di fuga verso la lontana masseria nella sua amata Puglia, dove secondo lei la aspettava sua madre.
La mia notte non era sicuramente uguale a quella dell’altra donna, quella del letto 22 che attendeva impaziente di sottoporsi ad un intervento che le avrebbe donato un seno perfetto , che lei già vedeva e accarezzava ; piccole tette sode sul corpo di una sessant’enne, che si era ricoverata senza dire niente a nessuno, neanche alla sua unica figlia che ignara le telefonava, e alla quale lei con un po di timore rispondeva di trovarsi in vacanza con una sua carissima amica .
Molti altri vivevano notti agitate e insonni ,un mare di menti piene di perché, un mare di corpi tormentati da ansie e dolori.
Tutto sotto lo sguardo vigile dei medici di turno e degli infermieri. Notti ,per alcuni di loro, fatte di stanchezza e insoddisfazione,mentre per altri pieni di rabbia, per turni assurdi , per una carriera che non riesce a decollare, o per quello che li aspetta fuori.
La mia notte , carica di pensieri non miei, di paure e gemiti non miei, la mia notte vuota, vissuta in un eterno stato di incoscienza, come se niente di ciò che stava accadendo riguardasse realmente me, come se neanche l’ago cannula fosse conficcato nel mio braccio. In fondo ho sempre avuto la sensazione di vivere in una specie di stato ipnotico,o meglio in un continuo letargo che mi allontana da tutto ,anche da me.
Solo quando il silenzio aveva ormai avvolto l’intero reparto e tutti dormivano o cercavano di farlo, sentii forte il bisogno di dare un ultimo sguardo al mio corpo ancora integro, così mi alzai, entrai in bagno, e davanti allo specchio mi spogliai e inumai mentalmente il seno che ben presto mi avrebbe lasciata, una cerimonia intima senza lacrime, quelle sarebbero venute dopo appena tornata a letto.
La luce del mattino piano si faceva strada nella stanza, e il via vai nel corridoio ricominciava, medici, infermieri, malati, terapie e termometri tutto come ogni giorno, tranne il bicchiere pieno di tintura di iodio dall’odore nauseante, che l’infermiere di turno mi aveva lasciato sul comodino raccomandandosi di lavarmi completamente con quello.
In piedi, nella vasca da bagno scrostata, ho iniziato a passare sulla pelle il disinfettante, la mia pelle si tingeva di giallo e questo mi faceva sentire marchiata, segnata, proprio come quella vecchia pubblicità sull’aids , ecco , dopo quel bagno colorato e maleodorante tutti avrebbero saputo, tutti avrebbero visto e capito che ero una bambola rotta .
Per fortuna il mio lato bambinesco non mi ha mai abbandonata , e quella mattina appena mi consegnarono il camice verde col quale si saliva in sala operatoria, lo indossai e per rallegrare le mie compagne di stanza offrii loro una sfilata del tipo piccolo diavolo, “modello Giuditta”, due risate ci volevano, poi via verso quel sonno profondo e innaturale che mi avrebbe messa per sempre davanti a una nuova vita.
– Parte III –
Fra Felice
Prima di proseguire nel racconto vorrei parlarvi di un altro fenomeno paranormale.
Da bambino fino a gioventù inoltrata mi capitava spesso di rivivere alcuni momenti, mi accorgevo che il presente che stavo vivendo lo avevo già vissuto tanto da ricordare di aver fatto le stessissime azioni e detto le stesse parole. Questo mi aveva incuriosito, tanto da fare studi sulla reincarnazione.[1]
A partire da Platone e confermata da tutta la letteratura scientifica, ad oggi la carne risulterebbe che non possa riprender vita, per cui non resta che riversare tutte queste considerazioni sull’ immortalità dello spirito.
Quindi non resta la convinzione che: “Il tutto è dovuto alla esigenza umana di credere ad una possibile continuazione della vita oltre la morte”.
Come vedete, anche in questo campo la letteratura scientifica e il credo religioso si sono ampiamente dilungati disgiuntamente.
Però . . .
Erano trascorsi circa 150 anni dai primi episodi che giunge a Castel di Torre un giovane frate, fra Felice, bravo, disponibile, accorrente e generoso e per questo tutti gli volevano un gran bene. Era di supporto al Priore nella chiesa dell’Assunzione che dava proprio sulla piazza.
Fra Felice era solito trattenersi anche oltre l’imbrunire a leggere il breviario nel parco lì adiacente. Una sera, sbiancato in volto in preda all’agitazione, tornò di corsa in chiesa e raccontò al priore di aver sentito una voce nel parco e che aveva visto una figura in trasparenza, il frate priore lo rassicuro e siccome aveva letto e sentito delle apparizioni gli consigliò di non andare più nel parco.
Superato lo sgomento, il ricordo di quella voce dolce e soave, quasi familiare, lo attraeva tanto da ritornarci più volte e non faceva altro che raccontarlo continuamente a tutti, diceva di vedere e parlare con una figura trasparente che conosceva da tanto e che per la quale provava un forte richiamo.
Così il padre Priore, conoscendo la semplicità e trasparenza disarmante di fra Felice e soprattutto per proteggerlo da eventuali derisioni lo fece trasferire al Convento.
Lì conobbe padre Paolo, anch'egli studioso ed esoterico, convinto che fra Felice fosse preda di energie negative, lo spinse in uno stato di sublimazione[2] con intese meditazioni.
Incontro mistico
Dopo un momento di confusione mentale, sotto analisi, fra Felice vive una esperienza subliminale entrando in contatto con uno spirito luminoso che lo accoglie a braccia aperte e lo rassicura. Non gli chiede cosa ci facesse lì perché onnisciente ma gli dice:
“Fra Felice,
il richiamo che senti non è parte di questa tua esistenza,
non sei ancora giunto alla tua finalità.
Il senso della tua vita terrena è quella di portare agli uomini
la pace,
l’amore,
la fratellanza.
Rimettiti in cammino e segui la parola di Dio”.
Così di fra Felice si seppe solo che dopo un periodo di meditazione, trascorso tra gli eremi di Pulsano, vagò senza sosta tra le genti donando tutto sé stesso, la sua semplicità e la sua generosità d'animo.
* * *
Epilogo
Il dott. Roland, con il tono di voce di chi con rammarico sta per concludere, continua:
"Nonostante la mia dedizione per questa storia, non ho trovato altro in merito, per cui il racconto sembrerebbe essere finito qui se non fosse per il fatto che ho continuato a visitare quel parco soffermandomi davanti al monumento nella speranza di riavere un contatto.
Mai niente di tangibile anche se percepisco ogni tanto una presenza.
Come in questo momento . . .
“Scusate.
Mi sento frastornato!
Gentilissimi tutti che mi state seguendo, sono confuso,
questa storia mi ha così preso che mi sembra di averla vissuta in prima persona.
Hem! Hem! La presenza è qui,
adesso,
proprio affianco a me,
sembra sia proprio lei, Amina.
Ho un groppo in gola,
non ho paura,
. . . non riesco nemmeno a pensare.
Vedo e sento Amina che mi tende la mano e con parole dolci mi rassicura.
Ho, ho, ho una fitta al cuore. . .”
I partecipanti al convegno rimangono disorientati e magnetizzati dalla storia e, nell’incertezza che fosse una messinscena, restano immobili e attoniti mentre il prof. Roland si accascia lentamente sul tavolato del palco.
Nella mente del professore, in un evidente stato di N.D.E.[3], rimbomba la voce di Amina:
“Roland, Roland,
mi amavi, e questo bastò a sconfiggere
l’inesorabile dissolvenza della morte.
La cattiveria ci tolse i corpi
ma non l’amore e la dolcezza
che ancora oggi non ci abbandona.
Il nostro Sentimento
ha oltrepassato il tempo,
vivendo di speranza
ai piedi di un monumento,
in un giardino sperduto sulla terra.
É giunto finalmente il momento
di ricongiungerti con la tua anima perduta,
solo così sarà possibile raggiungere insieme,
l'infinito”.
Nella mente di Roland si affollano i pensieri:
"Mi sento diverso.
Il buio mi circonda,
la percezione di una presenza amica mi conferisce una pace mai provata.
I sensi si acuiscono nel contempo mi assale ansia e curiosità.
Ora la calma . . .
Una luce intensa mi avvolge,
mi sento proiettato verso una nuova dimensione,
un mondo diverso a me del tutto sconosciuto.
La razionalità terrena non vuole abbandonarmi e
rivedo in un flashback tutte le mie vite passate.
Mi sembra di vivere un sogno e scrollo la testa per forzare il risveglio.
Piano piano mi sento leggero quasi potessi galleggiare nell'aria . . .
fluttuo.
Provo pace, gioia, amore,
è una sensazione meravigliosa.
Sento la voce che riconosco bene quella di Amina che mi dice:
“E’ questa la vera vita, quella che non finisce mai”.
Provo una forte emozione e perdo progressivamente la mia personalità,
il mio ego,
il mio corpo e ogni cosa che mi lega al mondo terreno
fino a diventare
Spirito.
Mi sento parte di ogni cosa . . .
parte dell'infinito stesso."
* * *
Telegiornale della sera
Edizione speciale: ”Una notizia tragica, si è spento il noto psicologo scrittore Dave Roland”.
“É deceduto a causa di un infarto cardiaco avvenuto durante la presentazione del suo ultimo lavoro”.
Fine
Grazie per aver seguito la storia fino alla fine.
[1] La cultura religiosa orientale, per reincarnazione intente una trasmigrazione dell'anima in altri corpi e la rinascita dello spirito di un individuo, in un altro corpo fisico, trascorso un certo intervallo di tempo dopo la sua morte terrena.
Alcuni sostengono che la reincarnazione è una specie di possessione temporanea di un corpo vitale da parte di anime che per motivi indefiniti non riescono a completare il loro ciclo di purificazione per accedere alla vera vita spirituale.
La fede Cristiana parla di Risurrezione ed è certamente riferita al ritorno in vita di Gesù Cristo, ma esprime anche il convincimento della "risurrezione dei morti". Dal Credo: Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.
La religione cattolica fa una netta distinzione tra Spirito, Anima e Corpo. L’Apostolo Paolo così scrive: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1Ts 5, 23). Qual è la differenza tra Corpo, Anima e Spirito? – Missionarie della Divina Rivelazione
[2] In psicoanalisi, la sublimazione è un meccanismo che trasferisce energie psichiche negative su di un piano superiore. Potrebbe essere definita come l‘arte della trasformazione dei contenuti psichici. Il processo della sublimazione in campo religioso, spirituale avviene al più alto livello attraverso la preghiera e la meditazione.
[3] Near Death Experience: Le esperienze ai confini della morte.
- Parte II -
Riccardo non ebbe più notizie della sua amante se non quelle che trapelavano dal castello e che riportavano della Contessa gravemente ammalata.
E così un giorno nel massimo dello sconforto ebbe una visione, vide lo spirito di Amina che gli parlò:

Sono qui,
accanto a te,
non puoi vedermi ma sono accanto a te.
Ascolto il battito del tuo cuore,
ha lo stesso ritmo che sentivo quando eravamo insieme.
Parlami ancora come facevi sempre,
con quel tono affettuoso che mi scioglieva l'anima.
Io ti ascolto.
Il tuo amore è la luce che mi guida in questa nuova dimensione.
Non piangere per me, sorridi,
l'amore vero non muore mai,
si trasforma e continua a vivere nei nostri cuori.
Ti amerò per sempre."
Personalmente non credo a queste apparizioni. Ma . . .
"Ciò che non vedi o non riesci ad immaginare non vuol dure che non esista".
Dopo la visione Riccardo non riusciva a capire se avesse sognato o avesse realmente visto Amina, quella apparizione traumatizzava ancor più la sua mente.
Venne a sapere di un certo padre Cipriano, studioso di fenomeni paranormali e metafisici, e credendo di essere preda di uno spirito volle a tutti i costi sottoporsi al rituale.[1]
Durante la preghiera del venerdì Padre Cipriano benedice l’acqua pronunciando:
O Dio,

per salvare tutti gli uomini
hai racchiuso nella realtà dell'acqua
i segni più grandi della tua grazia. Ecc.
Poi impone le mani al cavaliere e pronuncia con voce ferma:
Signore, Dio nostro,
che ci accogli a braccia aperte
e ti offri a noi come rifugio,
libera questo tuo servo
dal laccio dei demoni
e dalle forze maligne che lo perseguitano. Ecc.
E così, come afferma la comunità scientifica che: “I due più potenti fattori psicologici implicati nelle fantasie sono il contesto e la convinzione”, Riccardo cade in trance ipnotica e viene mentalmente proiettato in un’altra dimensione, in un ambiente ostile e demoniaco.

Dark Souls 3 (Part 5) - Dredging up the Past
Il cavaliere che ormai non aveva più nulla per cui valesse la pena mantenere il suo stato terreno accettò e cosi lo sguardo infuocato del demone gli sottrasse l'anima lasciandolo in una specie di oblio mentale.
Da lì a poco Riccardo si manifestò schiettamente al Conte Colangelo come l’innamorato di Amina, così questi, dopo averlo fatto imprigionare lo uccise personalmente pugnalandolo alle spalle.
Ma avendo ceduto l’anima il suo spirito ebbe un destino ben diverso.
* * *
( Breve racconto in 4 parti )
PREFAZIONE
La narrazione, in prima persona, si sviluppa attraverso un costante confronto, tra la razionalità scientifica e l’emotività, che il relatore intreccia con il vissuto personale e la storia che racconta.
PROLOGO

Sono il professor Dave Roland.

Oltre la vita
Un giorno, mi trovavo per lavoro in un paese Castel di Torre a confine tra la Puglia e il Molise, passeggiando tra le viuzze del borgo antico, assorto nei miei pensieri, non volendo mi trovai in una piazza che doveva essere la corte antistante l’austero castello che dominava il borgo antico. Sul lato nord era visibile un piccolo parco, era molto grazioso e ben curato con le aiuole fiorite.
Il silenzio, i colori, i profumi sembrava quasi un luogo di mestizia.

* * *

Amina

Ma torniamo alla storia.
_____________________________
Agrigento 1957
Sono ancora stordita, in preda ad una forte confusione mentale, le gambe mi tremano, mi fanno male , e un forte torpore invade ogni muscolo del del mio corpo giungendo fino alle palpebre.
Forse è meglio che non sottoponga il mio corpo a sforzi eccessivi, ma si ! Forse la miglior cosa è sedermi un po' qui , sulla panchina che si trova nello spazio esterno del befotrofio.
Le finestre sono ancora spalancate e si sentono pianti assordanti malamente attutiti dalle nenie delle inservienti:
" Amore mio ti voglio bene,
Gli occhietti di mia figlia sono sereni, cosa ha la figlia mia che piange sempre?
Vuol essere cullata tra gli aranci. Oh! "
La ragazza si accascia sulla panchina affranta , quasi fosse una marionetta in preda agli eventi, prende un sospiro per placare l'ansia che l'assale partendo dal basso ventre. Gli occhi le tremano per trattenere il pianto , ecco che un lacrimone sta per calarle sul viso. Di colpo le vengono in mente le parole della madre: " a piangere figlia mia , che risolvi? Pazienza ci vuole dinnanzi alle burrasche" " Pazienza ci vuole dinnanzi alle burrasche " mi ripeto, la saggezza popolare mi è sempre di grande conforto. Come sono arrivata a questo punto? Lasciare una cresturella piccola, indifesa, un ' appendice di me , che mese dopo mese si nutriva delle mie parole, delle mie paure, dei miei sentimenti, della mia voce di madre- bambina.
Una figlia da me non voluta, una figlia del terrore. Perché dall'unione forzata, dal dolore indicibile deve venir fuori un seme d'amore? Amore malato ! Ho pensato guardandomi il ventre con ribrezzo, sicché volevo soffocarlo , annientarlo , strapparlo da me. Che ci fai tu stupido esserino ? Nessuno ti ha mai chiesto! Nessuno ti ha mai voluto. Ora che è successo quel che è successo, ora che il mio corpo è una brocca in frantumi a nessuno interesserà e non lo voglio nemmeno io !
La ragazza dal bel corpo esile e dagli occhi verdi come acque di smeraldo scoppia in un pianto ininterrotto. Il labbro superiore le trema, le guance si gonfiano e colorano di un rossore ustionante , la fronte sembra perlata dal sudore , anche se in realtà è una mattina qualsiasi dei primi di giugno e il caldo ancora non si fa sentire.
Mio padre , è stato lui che ha sistemato ogni cosa.
Sopraggiunte le prime doglie mi ha accompagnata qui.
" tutto si è risolto nel migliore dei modi! " Ha sussurrato in un sorriso la levatrice:
" è una bambina! Come vuole chiamarla ?"
" Che importanza ha!" stavo per obiettarle, poi ci ho ripensato.
Se questa bambina non potrà conoscermi ne carpire in me qualcosa di lei, se non potrà avere un ben che minimo contatto con la mia famiglia, che si chiami Anna , come la nonna materna o come la protagonista infelice di un romanzo di Tolstoj sperando che però lei sia la sua antitesi. Possa avere un ' esistenza fluida nonostante le increspature, come il mare che bagna quest'isola.
Quando mio padre ha chiamato la clinica per accertarsi sulle mie condizioni ho risposto in un sol fiato: " si chiama Anna come la mamma"
PS
So che allora in Sicilia era ancora in vigore la possibilità di contrarre il matrimonio riparatore, tuttavia nei racconti è sempre concesso desiderare un' alternativa meno brutale.
Ha lasciato il suo amato bosco, ma solo per le feste di Natale.
Tra le sue mani, una busta scritta con polvere magica di fata e una caramella rossa e frizzante che mastica più volte.
Lui è l' aiutante di Babbo Natale, osserva i comportamenti dei bambini, per vedere se meritano il regalo sotto l' albero.
È un po' birichino, può lasciare impronte piccole e bianche simile a neve appena caduta e può spostare gli oggetti, fare disordine in casa.
Può nascondersi per scaldarsi vicino al camino, grattarsi la schiena con una molletta per il bucato e quando è stanco, russare come una minestra che sta per bollire.
Possiamo chiamarlo come preferiamo, lui è volenteroso e molto goloso.
Nel suo piccolo pancino, non mancano mai un pezzo di pane, una mela e il miele.
Babbo Natale lo ama per la sua bontà, anche se a volte prende sonno all' improvviso.
Basta solo un pò di zucchero sotto il naso e si sveglia, si stiracchia la schiena e spedisce un nuovo regalo, regalando ancora un dolce sorriso.