Poi dopo qualche anno di stasi, una nuova opportunità folgorò la mia vita che tentava di ripartire: era bionda, viva, allegra, intelligente, instancabile. Con lei decidemmo che ti saresti chiamata Giulia, perché Emilia m’avrebbe ricordato troppo il passato e la fuga. Perché? Non lo so, non l’ho mai saputo, ma questo nome l’ho avuto sempre nella testa; non saprei se c’è entrato inconsciamente perché ho conosciuto una qualche Giulia che mi avesse colpito, o magari qualche canzone dedicata a Giulia mi era piaciuta (Gianni Togni? Vasco Rossi? Antonello Venditti? Chissà!) o semplicemente me ne piaceva il suono. Ma scappato dai miei vent’anni e dall’ipotesi Emilia, non potevi che chiamarti Giulia!
Con il mio pulcino biondo stavamo pianificando la tua esistenza nella nostra futura famiglia, nella casetta che avevamo comprato accendendo un mutuo e rallegrando anche un po’ di istituti di credito per avere in prestito i capitali necessari a disfare prima e ristrutturare poi quella casa che proprio lei aveva scelta tra quelle che visitammo da comprare, ma voleva sentirla ancora più “sua” (che ingenui… era delle banche, non nostra!). Del resto lavoravamo bene, due belli stipendi, banca ed istituti erano felici di accoglierci e proporci i vari tassi tra cui scegliere, la crisi del 2008 ancora non aveva piegato il mondo, l’Italia, tantomeno noi che sognavamo e progettavamo di avere non solo te, ma anche possibilmente un fratellino; se eventualmente la seconda fosse stata femminuccia anche lei, allora avremmo osato un terzo ed ultimo tentativo per avere anche un maschietto. Più o meno i trucchi per agevolare l’arrivo di una femminuccia o un maschietto li sapevamo, essenzialmente una questione di “profondità di sgancio della bomba” :-)))) perché i gameti maschili son più veloci ma tendono a schiattare prima e, se li sganci troppo distanti, non arrivano alla meta; certo nessuna garanzia, ma diciamo su per giù al 75% questa specie di selezione riesce; non è il 100%, ma è pur sempre molto più del 50%.
Il tempo passava, lavori e stipendi filavano, più che lisci direi proprio benone. Sia la mamma sia io eravamo contenti dei nostri impieghi e dei relativi introiti, ero molto stimato anche fuori regione negli ambienti in cui mi muovevo, ero il braccio destro del capo ed andavamo ovunque a portare la nostra professionalità; latitudini tra la Sicilia e il Belgio, dove in auto, dove in aereo. Tutte le volte che ero in trasferta, le videochiamate con la mamma erano gioiose (all’epoca non era consuetudine vedersi per telefono: io e lei ci vedevamo dai computer, con Skype, si parlava del futuro e di quanto ci mancavamo per quei 2 o 3 giorni di distanza) ed i rientri… focosi!
Frattanto, la solita pillola badava che tu fossi un preciso progetto e non un maldestro incidente: ne avevamo di cose da preparare per offrirti una vita serena! Non doveva mancarti nulla, non avresti dovuto soffrire nessuna rinuncia. I lavori per la casa continuavano favolosi, tutti gli impianti nuovi e non semplicemente “a norma” ma al massimo della qualità possibile, persino cablaggio lan e videosorveglianza, predisposizione al solare quando ancora non era di moda eccetera eccetera.
Poi arrivò il 2008. Poi andarono via i lavori. Poi andarono via i soldi. Poi le banche si fecero più cattive. Poi la mia salute andò a rotoli. Poi la mamma fuggì all’estero; io avrei dovuto raggiungerla e tentare di rifarci una vita fuori dall’Unione Europea, per complicare alle banche il divertimento di spellarci vivi. Ci tolsero una casa che non facemmo in tempo a vivere, senza tra l’altro azzerare i debiti: pretendevano, dopo averci portato via tutto, che restituissimo ancora più soldi di quanti ce ne avevano prestati, nonostante gli anni di regolare e puntuale pagamento delle rate. Come se non le avessimo mai pagate, eppure per anni ed anni non ne avevamo saltata neanche una. Imparai a muovermi a piedi fin dove potevo e purtroppo la meta abituale diventò l’ospedale, problemi che avevo da chissà quanti anni ma che erano stati trascurati perché non sembravano impattanti, diventarono insostenibili; si scoprì che erano di una gravità altissima e che occorrevano interventi chirurgici delicati per sperare, senza garanzie, di sopravvivere; mentre tutto intorno andava sempre più a rotoli.
Arrivò il giorno in cui la mamma, di rientro qui al villaggio per una piccola vacanza, portandomi a passeggiare sul lungomare, esordì con il classico «Dobbiamo parlare!».
Lo sai cosa vuol dire quando una donna dice al “suo” uomo «Dobbiamo parlare!»? Vuol dire che, per un motivo o un’altro (spesso, inaspettatamente, è “l’altro” ma lo capisci anni dopo), non sei più “suo”. In giro raccontavamo che ci eravamo lasciati di comune accordo, ma in realtà lei era molto, molto più d’accordo di me. A tenerci uniti son rimasti solo banche, avvocati, istituti di credito e loschi personaggi che minacciano per avere soldi che non ho modo di trovare, nulla di più.
E tu?
Tu… beh, la pillola ha funzionato, sempre; ed in attesa del momento giusto per farti nascere… non sei mai nata! Sei rimasta uno dei miei tanti sogni bruciati, uno dei miei rimorsi, da aggiungere alla catasta di rammarichi. Un elemento in meno a tentare di dare un senso a questa mia esistenza sbagliata.
Mi dispiace di non averti mai vista, mai baciata, mai stretta tra le mie braccia; ma mi consola non averti mai trascinata nel mio inferno. Almeno non me lo rinfaccerai e non mi odierai.
Mentre qui pian piano continua a bagnarsi tutto nonostante fuori non piova, mi resta una sola cosa da dirti, figlia mia: addio, Giulia.
23/08/2024
Nacqui. E forse già da quel momento fui come sono oggi: sconclusionato. Mi piacerebbe spiegarvelo bene raccontandovi di come arrivai alle prime poppate, ai primi sorrisi, ai primi versi, ai primi passi, alle prime parole… ma in realtà non ricordo nulla dei miei primi mesi, i miei primi ricordi sufficientemente nitidi risalgono al periodo delle suore, l’asilo con tanti altri bambini simili a me (più o meno, non proprio uguali) controllati a vista da questi autoritari guardiani vestiti di nero che erano le suore. Lì disegnavamo, lì cantavamo, lì imparavamo filastrocche e tante, tante preghiere per rabbonire quei mostri da horror che erano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma soprattutto lì giocavamo e bisticciavamo. A dire il vero io non bisticciavo molto, le suore dicevano che ero un bambino bravo, un modello da seguire. Seguire per andare poi chissà dove?! Non è che abbia mai avuto l’indole del condottiero che traccia la strada per sé e per gli altri! Però ero un osservatore abbastanza attento e guardando bene gli altri bambini avevo capito che si dividevano in due categorie: i bambini propriamente detti, come me, e le bambine, che erano diverse, più interessanti, più belline, più gentili… mi piacevano! Un po’ tutte, ma una biondina in particolare mi affascinava tanto che pensavo spesso a lei anche quando non ero all’asilo, persino a volte la sognavo! La chiameremo Filomena (giusto per darle un nome che non c'entra nulla con il suo nome vero). Filomena aveva begli occhi, bei capelli, bella bocca, bel nasino, belle guance, bella faccia, bella testa, bel corpo, tutta bella! Educata, gentile, intelligente! La elessi quindi a mia Principessa. Sì, mi piaceva e la sognavo, ma cercare di parlarle mi intimidiva un po’; io ero un genio della scienza, avevo ormai capito che le bambine poi si trasformano, come vedevamo sui libri che i bruchi si trasformano in farfalle, così avevo capito che le bambine si trasformano e quando passa il tempo entrano in un’altra categoria. Anzi due. Beh, abbiate pietà, non ero ancora approdato all’università e quindi un po’ di confusione sulla fisiologia umana ce l’avevo, anche sull’anatomia non è che fossi certo al 100%, che io avevo ancora fratellini solo maschi. Però che le bambine non avevano il pisellino lo sapevo già! Non sapevo il perché, ma sapevo che quella è la cosa che più distingueva i bambini dalle bambine. Oltre al fatto che le bambine erano più belle e più gentili. Lo sapevo perché le suore avevano grande fiducia in me e quindi se stavano troppo indaffarate ed a qualcuno scappava la pipì, delegavano me per accompagnare in bagno e starci attento, sia che fossero bambini, sia che fossero bambine! Ero l’unico jolly, altri maschietti che accompagnassero in bagno una femminuccia in emergenza non ce n’erano. Ma dicevo del mio aver capito che poi le bambine si trasformano, quindi diventano o mamme o nonne! Or/or! Le due categorie erano ai miei occhi nettamente separate, le mamme erano belle, dolci, protettive, le nonne erano brutte, antipatiche e incomprensibili. Questo perché la mia mamma, giovane e bella, era sempre disponibile, capace di aiutare me e i fratellini, parlava bene, in italiano, con toni rassicuranti. La nonna invece, che viveva di fianco, era rude, parlava un dialetto nient'affatto forbito, era sempre nervosa, ci sgridava e poi a me non piaceva la sua abitudine di prendere, ogni volta che la gatta bianca sfornava una nuova cucciolata nel giardino, i gattini neonati, sbatterli con forza contro un muro e poi gettarli nella spazzatura! Mi veniva da piangere. Così mi ritrovavo a pregare talvolta il misterioso Signore delle suore, chiedendogli (perché lui poteva tutto, ce lo spiegavano sempre) di fare in modo che Filomena crescendo si trasformasse in una mamma e non in una nonna! Sperando anche che non le crescessero però le tette (che le mamme e le nonne le avevano, a volte specialmente le mamme decisamente ingombranti ed a me, diversamente da altri bambini, quelle grosse mongolfiere sul petto non piacevano). Sperando soprattutto che stesse sempre con me! Mi piaceva davvero, Ma non glielo sapevo dire. Arrivai a fare a botte con un altro bambino per lei, perché la infastidiva, fino a fargli sanguinare il muso, e le suore rincararono la dose quando lui le chiamò piangendo, perché sostenevano che se io, proprio io, lo avevo picchiato, allora sicuramente lo avevo fatto per un motivo giusto, per punirlo di qualche marachella grave. Invece l’avevo fatto solo per gelosia, ma non lo dissi alle suore né a Filomena. Filomena non seppe mai che animava i miei sogni, l’asilo finì perché diventando grandi passammo alle scuole “vere” e non la vidi mai più. Fu la prima della serie di stelline che entravano nel mio cuore senza che la mia bocca trovasse il coraggio di dire nulla. Del resto, com’ero (e son rimasto) inconcludente in amore, sono inconcludente anche in tutto il resto.
Troppo insicuro per impegnarmi sufficientemente in qualsiasi ambito.
Son sempre stato così nelle relazioni interpersonali, ma anche nel rapportarmi con il mondo del gioco¹, dello studio², del lavoro³… qualcosa vorrà dire se non mi sono laureato!
L’insicurezza e la sconclusionatezza mi hanno accompagnato in tutte le tappe della mia vita, specialmente in quelle più importanti, impedendomi di portare a felice conclusione alcunché.
Diventato grande e cominciata la scuola elementare, infatti, ricordo ancora, dopo quasi una cinquantina d’anni, quella mattina in cui io timido bimbo tra gli altri nuovi compagni
¹: nota
²: nota
³: nota
21/06/2024
1 - Personaggi.
Per proteggere le identità reali battezziamo, oltre a ioffa, due personaggi:
PIT è docente di italiano e latino nel triennio del liceo,
PIF è docente di filosofia e storia;
PIF è convintamente ateo, profondamente comunista, in ottimo rapporto con me, con reciproca profonda stima, sempre disponibile al dialogo e convinto dell’utilità degli studi e della cultura per chiunque; è anche amico di David Maria Turoldo;
PIT(bull) è, volendone semplificare la descrizione, ignorante, arrogante, classista con farcitura di bigottismo e fatalismo, conosce mnemonicamente le lezioni di italiano e latino che impartisce senza entusiasmare nessuno; i suoi criteri di valutazione vertono su chi sia lo studente, non certo su cosa lo stesso risponde nelle interrogazioni o cosa scrive nei compiti; il rapporto con me, immagino sia intuibile, è pessimo, dato che vengo a scuola con la corriera dal villaggetto di contadinacci e son pure figlio di comunista, credente sì (mio padre, non io), ma pur sempre comunista.
2 - Qualche aneddoto del passato remoto per inquadrare meglio PIT.
Solitamente nelle interrogazioni, di italiano molto più che di latino, oltre a rispondere sempre correttamente a tutte le domande che mi faceva PIT, se c’era occasione andavo oltre, magari nel parlare di qualche autore, contestualizzandolo nella società in cui viveva ed analizzando le sue opere riferendole a quella realtà, per esempio, o citando i rapporti che avesse con altri autori o personaggi notabili dell’epoca, oppure mi divertivo a scavare nel commento di un testo aggiungendo considerazioni ulteriori rispetto a quelle già presenti nei libri che usavamo; beh, rimase alla storia della nostra classe in una di quelle occasioni, dopo che aggiunsi considerazioni approfondite ad un’analisi di un testo poetico durante un’interrogazione, un suo sbottare in:
«ioffa¹, io non capisco perché ogni volta ti sforzi per farmi fare brutta figura!»
Restai tra il sorpreso, il risentito e lo spaventato, ma fu questione di pochi secondi e poi con una serenità inaspettata risposi pacato:
«Prof, le giuro che non mi sforzo per niente in tal senso»
e mentre tornavo a preoccuparmi per aver osato rispondere in quel modo io che tra l’altro ero esageratamente timido, vidi l’intera classe ridere ma a quanto pare PIT non colse il sarcasmo di quella risposta ed andò oltre nell’interrogazione semplicemente invitandomi ad attenermi a quello che c’era scritto sul libro.
Sempre per capire quanto brillante fosse PIT, un altro aneddoto che coinvolge sia PIT sia PIF: eravamo più o meno agli inizi del 2° quadrimestre del 4° anno, PIT aveva adottato come testi per la letteratura italiana dei volumacci (erano più di uno per anno) pesanti e costosi ma davvero ben fatti, ricchi, interessanti; ci dissero che venivano impiegati anche in ambito universitario, erano mica “robetta da liceo”. Per questa scelta aveva molto orgoglio ed in effetti quei libri sviluppavano commenti alle opere da diversi punti di vista tenendo conto di diverse ideologie, delle relazioni tra autori, opere e contesto socioeconomicopolitico; a me piacevano molto (qualcuno in classe li odiava non tanto per il prezzo esagerato quanto per il loro essere macigni pesanti sia per gli zaini sia per lo studio); solo che un giorno PIF si complimentò con PIT per la scelta di quei libri lasciandosi scappare che “non chiudono ad un’analisi di approccio anche marxista nello studio di autori e società”; non l’avesse mai detto: PIT scandalizzata ci dice che non utilizzeremo più da quel momento in poi quei libri ma che dovevamo procurarci (a metà del 4° anno?) un unico testo molto più compatto, economico e semplice (che era di impronta conservatrice nei pochi commenti ai testi, molto sommario nel presentare gli autori e non contestualizzava un bel niente).
¹: ovviamente non disse “ioffa” ma usò il mio vero cognome.
3 - Aneddoto più prossimo, prologo dell’incontro.
Correggendo un compito in classe di italiano, PIT umilia alcuni studenti parsi meno brillanti nella stesura del tema, per la scrittura goffa e qualcuno addirittura con qualche errore grammaticale serio (per un 4° liceo, non certo a livelli di analfabetismo), dichiarandoli infine degli “esseri del tutto inutili alla società ed alla vita” (erano studenti che disprezzava da tutti i punti di vista, nessuno tra loro aveva genitori “illustri” o ricchi).
Nel frattempo PIF con la collaborazione del preside sta organizzando un incontro degli studenti del triennio con padre David Maria Turoldo per parlare di letteratura ed in particolare di poesia; PIT ne approfitta per cercare di farsi notare dal venturo illustre ospite e ci impone, un paio di giorni prima del suo arrivo, di scrivere ciascuno una poesia, che avrebbe poi scelto le più belle da leggere al poeta quando sarebbe entrato da noi; io ne approfitto per comporre un sonetto in cui, con metafore attinenti alla fisica e all’elettronica (ero appassionato e preparato nel comparto tecnico/scientifico) mostro che tutti i membri di un sistema, ossia fuor di metafora tutti gli studenti della nostra classe, hanno dignità e, svolgendo quanto richiesto dal proprio ruolo e consentito dalle singole capacità, risultano tutti utili se non addirittura indispensabili per il buon funzionamento del sistema (o della classe); per quanto possiate non crederci, dal punto di vista formale il sonetto è perfetto, uno schema rime classico ABBA ABBA CDC DCD in una metrica precisa di endecasillabi canonici a maiore, ho scelto la variante a maiore dell’endecasillabo per aumentare la marzialità dell’esposizione; beh, quando l’ha letta, l’ha bollata come porcheria (ma non perché ne abbia capito il significato criticante l’umiliazione che aveva fatto ai miei compagni, più semplicemente perché manca l’associazione cuore/amore o verginesanta/chiesasivanta) e menomale che su quelle poesie non mette voti in registro!
4 - L’incontro.
Però il giorno tanto atteso quando finalmente Turoldo entra nella nostra classe, dopo un pochino di dibattito PIT se ne esce tronfiamente con «Ho insegnato ai ragazzi a scrivere poesie, gliene faccio leggere una a caso… ioffa² vieni in cattedra, magari leggiamo la tua»; la leggo e a padre Turoldo piace molto, ne comprende anche benissimo il significato e lo condivide, ne parliamo, senza ovviamente svelargli l’antefatto dell’umiliazione subita pochi giorni prima dai miei compagni, poi esprime apprezzamenti anche sulla forma oltre al significato, e lì PIT si inorgoglisce ripetendo (ed era falsissimo, ci aveva solo imposto di scriverne una ciascuno) che ci ha insegnato a comporre le poesie in maniera profonda e corretta; non scorderò mai il mezzo sorriso con cui Turoldo ha reagito guardandomi, avendo capito che PIT è solo un pavone ignorante esibizionista ed arrogante; poi continua a parlare alla classe portando avanti il tema del mio sonetto.
E niente, a parte la soddisfazione di una rivalsa sul pessimo giudizio che ne aveva espresso PIT, quella giornata e quell’apprezzamento che di un mio sonetto stava facendo un vero poeta mi emozionano tantissimo!
²: vedere la nota ¹ del 2° paragrafo.
5 - Epilogo.
PIT il giorno dopo troverà modo di ribadirmi che ha scelto di far leggere il mio sonetto e non altre poesie più belle scritte dai miei compagni perché non voleva pavoneggiarsi troppo con Turoldo nella sua capacità di insegnare ad una classe a comporre poesie, quindi ha preferito proporgli un lavoro mediocre, non le migliori che la classe ha composto! Son certo che, nonostante le spiegazioni fatte da Turoldo commentandomi, PIT non abbia comunque capito il significato del mio sonetto.
02-05/05/2024
Ero bravo da piccolo a fare castelli di sabbia, ne facevo sempre, non mi venivano affatto male, ma li innalzavo sempre vicino alla battigia sicché il mare lentamente ma inesorabilmente li erodeva, partendo dal basso e facendo man mano crollare le parti superiori per poi portarsele via come aveva già fatto con il basamento.
Una ventina di anni fa invece ho provato a farne uno davvero importante, grande, destinato nel mio candido progetto a sfidare i secoli, del resto sabbia ce n’era e sembrava illimitata, carriole e palette potevo prenderne a profusione, tempo ne avevo quanto ne volevo o almeno quanto pensavo ne bastasse e poi l’esperienza mi avrebbe dovuto insegnare che van fatti abbastanza lontano dal mare, anche nascondendoci dentro qualche rinforzo, che so, legni, sassi… ma niente, come uno stupido l’ho fatto troppo grande, troppo fragile e come al solito troppo vicino al mare: è bastata la prima onda seria a far crollare tutto, poi le onde successive impietose hanno anche livellato le sabbiose macerie e rapito senza possibilità di riscatto secchielli, carriole e palette, trascinandole in lontani abissi.
Pochi anni fa ho tentato di riprendere in mano i progetti più vecchi ed ambiziosi per ricostruire, ma sul limitare della battigia, che senza più carriole anche volendo non me ne sarei potuto allontanare, ed a mani nude perché secchielli e palette non ne ho più e non sono più in grado di acquistarne. Il castello cresceva lentamente, tra una manata e l’altra di sabbia bagnata dovevo fermarmi a riprendere fiato perché io ormai son vecchio -prematuramente vecchio- e acciaccato; il mare invece no, non invecchia mai ed ha sempre tutta l’energia che vuole, così di quest’ultimo castello non son riuscito a completare neanche le fondamenta: porto la sabbia nei palmi delle mani unite, la compatto un po’ senza crederci più di tanto, perché so che appena mi giro per prendere un’altra manata di sabbia bagnata, l’onda arriva, mi supera sbeffeggiando e lava via quella che avevo appena messo per tentare di innalzare un nuovo piccolo castello, o almeno una stabile torretta difensiva. Una scena ridicola: continuo a prendere la sabbia bagnata e portarla al limite della battigia mentre le onde continuano a raggiungerla e riportarsela indietro, finché… finché… pausa, un attimo, respiro a polmoni più o meno pieni per placare l’affanno, mentre mi giro per cogliere ancora sabbia vedo una cosa sbattuta dall’ultima onda sulla collinetta di sabbia slavata del mio malfatto castelletto… cos’è?
Qualcosa di marrone… sapendo quanto mi ami la fortuna, se mi piove addosso qualcosa di marrone una mezza idea di cosa possa essere ce l’ho subito! Però no, non è quella, è qualcosa di più rigido, è vetro, è una bottiglia… è una bottiglia di vino, ma ovviamente di quelle più economiche da discount, mica roba gran riserva, ed ovviamente è vuot… no, aspetta, qualcosa dentro c’è, vuoi vedere che è la mappa per l’isola del tesoro? O un messaggio della mia amata sirena.
Insomma, dentro la bottiglia c’è un foglietto arrotolato! Basta con questa inutile corsa a tentar di fare un inutile castello di inutile sabbia, vediamo cosa mi offre il destino: prendo la bottiglia, mi siedo sulla spiaggia che all’improvviso m’appare deserta, non ci sono più bambini che ridacchiano guardando come sono sfigato con il mio castello rovinante mentre i loro vengono su e magari per qualche giorno o per qualche anno resistono pure; non c’è più nessuno, solo io e la mia bottiglia che con fatica, ansimando, riesco a stappare; il tappo di sughero lo vado a gettare nel cestino perché una coscienza ce l’avrei, in un altro cestino lascio la bottiglia vuota dopo aver estratto il mitico foglietto.
Ora lo srotolo con gli occhi sgranati e come al solito pieni di speranza senza aver avuto ancora nessuna garanzia. Cos’è? No… nessuna mappa… è scritto fitto fitto… non è un manoscritto sirenico con cuoricini disegnati… ma che diavolo è?
Come sarebbe a dire notifica? Chi? Cosa? Porco Giuda! È un’intimazione a pagare in fretta!
L’agenzia delle entrate mi fa notare che non ho mai pagato l’IMU per tutti i castelli distrutti dalla mia infanzia ad oggi, me li ha conteggiati tutti, anche quelli che non sto riuscendo a costruirmi in questi ultimi anni, e per tutti ci sono aggiunte anche tasse extra per le mancate autorizzazioni, concessioni, permessi, quelle robe lì e poi tanti, tanti interessi, a tassi che sarebbero di usura ma non posso certo pagare alcun avvocato per contestare alcunché. Sogni infranti, castelli spazzati via ed in più lo stato che richiede tasse arretrate di cui non sapevo nulla, oltre ovviamente i vecchi fornitori di secchielli e palette che ancora aspettano di essere saldati. Tasse esagerate per un nulla scivolato tra le dita e lavato via dal mare. Accidenti alle tasse, ai foglietti, ai messaggi in bottiglia, alle bottiglie di vino e a chi ancora non mi ha tagliato le mani ogni volta che mi sono azzardato a prendere sabbia per fare un nuovo castello!
19/04/2024
“Così, mi sono messo a pensare al mio momento più felice. A dire il vero, ne ho trovati 3 di momenti, in tre giorni di tre mesi di tre anni diversi, tutti collegati da un filo conduttore” (Raskolnikov)
Una premessa: non scrivo in versi in questa occasione, bensì provo a cimentarmi nella scrittura puramente prosaica, sperando di risultare al contempo leggero, chiaro, interessante, divertente… ecco, 4 obbiettivi, spero di avvicinarmi almeno ad uno di essi; quindi inserisco questo scritto nella categoria “Narrativa”, sottocategoria “biografico/autobiografico”.
Leggendo il testo odierno di Raskolnikov, così come le parole di Pupi Avati hanno indotto lui ad una riflessione, parimenti le sue hanno indotto me nella stessa riflessione.
Ho provato a pensare anch’io ai miei “momenti più felici” e ne ho individuati… diciamo 5 (“diciamo 5” perché in realtà il 2° si è ripetuto più volte, quindi a rigore ho individuato 4 momenti singoli più un’intera classe di momenti). Ve li espongo in una specie di classifica, una top five di come li peso attualmente, dal 5° al 1°.
Andiamo dunque a cominciare in puro stile Disc jockey!
Signore e signori,
» al 5° posto abbiamo, direttamente dall’estate del 1992: la psicopatica che decide che sono il suo fidanzato! Avevo 22 anni, ma era la mia primissima fidanzata, mi sentivo felice perché mi aveva i primi giorni fatta una bellissima impressione, lei si era appena laureata e stavamo festeggiando il suo compleanno tra amici, ne compiva 25. Io mi rincitrullii completamente, persi lucidità ed obiettività nell’osservare sia lei sia il mondo intero e fu l’inizio della mia catastrofe personale. Non è stato certo il primo sbaglio della mia vita, ne avevo già collezionati diversi, ma quello fu lo sbaglio più devastante di tutti, tanto da portarmi ad abbandonare gli studi, a perdere gli amici, a danneggiare la mia salute, a fuggire via da una città che amavo per tornarmene con la coda tra le gambe nel mio lontanissimo villaggetto d’origine. Non mi rendevo conto e quando dopo qualche mese gli ex amici cominciarono a suggerirmi di aprire gli occhi, non gli diedi retta. Furono anni di agonia e sofferenza, di sforzi esagerati e risultati nulli. Però all’inizio furono bellissimi mesi e in particolare quel giorno appunto che decise che ero il suo uomo! Mi piaceva quell’apparente risoluta determinazione che ostentava, in realtà serviva a mascherare una caterva di fragili insicurezze derivanti da una forte depressione indotta da pesante schizofrenia paranoide ad origine familiare. Un aneddoto di quei primi giorni che, se fossi stato meno fulminato dalla gioia improvvisa e inattesa, avrebbe dovuto farmi capire che dovevo fuggire subito: qualche sera dopo avermi fidanzato, mi trascinò nella "sua" casa e facemmo per la prima volta sesso (ah, in quello era davvero brava e instancabile, era la sua valvola di sfogo e ci sarebbe da scriverne un intero libro più vasto della trilogia di Erika Leonard¹, anche se non in chiave BDSM); io prima di buttarmi su quel letto le avevo chiesto mille volte se eravamo soli e se era sicura che saremmo rimasti soli, lei giurava che i suoi non c’erano e non sarebbero tornati… e allora, dài che ridài che stradài, facemmo furori esagerati tutta la notte, all’alba crollammo finché non mi sentii toccare e scuotere da una signora che terrorizzata farfugliava frasi del tipo “Ma che avete fatto? Ma sei scema? Sta per alzarsi tuo padre, se lo vede lo ammazza”... noi nudi come vermi sfatti sul letto, io morto dall’imbarazzo e lei che farfugliava risposte del tipo “Ormai sono grande e faccio quello che mi pare!” … Tra l’altro il padre era un fanatico leghista della prima ora, adoratore di Bossi, con armi in casa mi dissero e che mai perdonò alla figlia di essersi messa con “un terun”. Bon, so’ stato troppo prolisso, nei prossimi sarò più sintetico, spero. Comunque, ribadisco, quando la psicopatica mi disse che ero il suo uomo, il cuore mi batté all’impazzata e mi sentivo l’uomo più fortunato del mondo (!)
» al 4° posto abbiamo, direttamente dall’autunno del 2005: l'entrata in casa appena comprata con il mio “Pulcino”, l’ultima fidanzata, lungi dall'immaginare che non l'avremmo mai abitata e ci avrebbe rovinati quando con il sopraggiungere della mia malattia e la sua perdita del lavoro nella crisi del 2008 cominciammo a far fatica a stare dietro al mutuo di acquisto e alle spese di ristrutturazione, tanto che dal 2010 ormai non riuscii a pagare più nulla ed alla fine abbiam perso tutto, ma proprio tutto tutto. Però il giorno che ci entrammo dopo aver firmato gli atti ed esserne diventati i “proprietari” (ecco, non avevamo ancora capito che eravamo comproprietari insieme a banche e finanziarie!) eravamo strafelici e col cuore che tamburellava immaginavamo tutti i lavori da fare per renderla il nostro nido!
» al 3° posto abbiamo, direttamente dalla primavera del 2002: il mio Pulcino che mi svela di essere innamorata di me e voler stare con me! La cosa cominciò a lavoro (il mio), tra le tante attività che facevo nell’azienda c’erano anche i corsi di alfabetizzazione informatica, molto apprezzati dai miei allievi che andavano dai 6 ai 66 anni; lei era nella “classe” più vivace e interessata che abbia avuto, e lei in particolare era tra le più sveglie di tutti i corsi che ho tenuto. Ci piacemmo subito, essendo mia compaesana cominciammo ad uscire alcune sere insieme (avevamo orari di lavoro decisamente pieni, di tempo libero ne restava un nonnulla, ma ci bastò). Una sera mi trascinò in un bar carino e riservato di un paesone vicino e mi si dichiarò. Mi venne sulle gambe. Mi baciò. Il cuore palpitava, la mente vagava persa in un mondo irreale, inconsistente, tra la fantasia ed il sogno, di certo non sembrava realtà. Ma lo era, eccome se lo era! Quel bacio/abbraccio lo ricordo nei dettagli, quella sensazione era stupenda!
» al 2° posto abbiamo, a più riprese in momenti diversi (anche se troppo rari rispetto a quanto vorrei) nella 2ª metà degli anni ‘90 e poi dal 2012 ad oggi: il sorriso della “mia” sirena dagli occhi verdi, ancor più quando per un qualche strampalato motivo sono concausa del sorriso, fosse anche una banalità tipo averle dato una mano a sistemare qualcosa del suo computer o che so io; ma in definitiva ogni volta che la vedo sorridere mi sento ingiustificabilmente felice, dimentico dei miei mille problemi, inconscio del fatto che non è “mia”, ma godo della visione di quel viso che mi scalda più di quanto riesca a fare il sole, tutte le volte che la vedo sorridere², sento il pavimento sparire sotto i miei piedi, il mio peso annullarsi in una felicità onirica.
» ma al 1° posto abbiamo (rullo di tamburi), direttamente dall’estate del 1990: l’esame di geometria lineare e algebra matriciale³; era il mio 2° esame universitario, il primo era stato “Analisi matematica 1°” che avevo superato a primo colpo con un 25/30 ma non fu entusiasmante, anche perché come media i compagni che l’avevano superato avevano rimediato forse quasi 27. L’esame di “Geometria” invece mi aveva affascinato ed era il mio primo 30/30, e la media tra i compagni che l’avevano superato non raggiungeva il 24. Poi il prof ebbe parole belle nei miei confronti. Dalla facoltà al collegio in cui abitavo all’epoca c’era 1 km di strada, era in leggerissima discesa il ritorno, stradine tranquille salvo l’attraversamento dei viali che delimitavano il centro della città, mastodontici e trafficatissimi… beh, l’intero chilometro lo feci senza capire nulla, con in faccia un sorriso da ebete, senza sentire la strada sotto i piedi, senza rendermi conto di quel che facevo, clacsonato all’impazzata mentre tagliavo i viali senza riuscire a mettere a fuoco le automobili, con gli occhi stralunati… no… la felicità è proprio pericolosa!
¹: Cinquanta sfumature di grigio/nero/rosso… no, vabbe’, insieme superano le millecinquecento pagine ed io sono pigro, lento, stanco e vecchio… idea già abortita, siete salvi.
²: Capiterà più o meno una volta al mese… troppo diluita come terapia al male di vivere.
³: Per gli amici semplicemente "Geometria", ma non centrava niente con le geometrie semplici del liceo.
06/05/2023
La data si rivelò fatidica anche per un altro motivo, unico nella storia della maturità. Una suora, preside di un istituto privato di Vigevano, si fece indurre in tentazione da un sedicente provveditore agli studi ed aprì il plico contenente i titoli dei temi, innescando una fuga di notizie che in fondo rappresentava il sogno di tutti gli studenti: conoscere in anticipo gli argomenti su cui vertevano i temi! La suora ebbe però una crisi di coscienza è rivelò l'inghippo.
Quella sera, al telegiornale, si rincorsero le notizie più disparate: avrebbero rimandato la prova?
Ci furono vorticosi giri di telefonate con i compagni di classe. Che facciamo? Che faranno? L'incertezza regnava sovrana. Qualcuno non fu possibile contattarlo perché i genitori, per preservare la sua tranquillità, avevano staccato telefono e tivù... e sinceramente mi parve eccessivo.
Comunque decidemmo di presentarci a scuola il giorno successivo, ed apprendemmo che l'esame sarebbe iniziato il 2 Luglio con la prova scritta di latino, mentre al ministero avrebbero lavorato alacremente per predisporre altre tracce che carabinieri e poliziotti, che avrebbero sicuramente avuto altro da fare visto che quelli erano “anni di piombo” tra brigate rosse e nere, dovettero consegnare in tutta Italia. Ed il 6 Luglio potemmo finalmente recuperare la prima prova.
Maturità speciale, unica nella storia: ma noi tutti del '57 siamo speciali, unici ed irripetibili!
Ma la suora di Vigevano che fine ha fatto? E l'anonimo falso provveditore? Mah... comunque mi piace pensare ad una versione moderna di Gertrude, la monaca di Monza, e dello scellerato Egidio: lui le chiese i titoli, “e la sventurata rispose”.
***
Come tanto tempo fa, me ne stavo in precario equilibrio sullo scoglio nero, quello a forma di piramide tronca, di fronte la cucina di Rocco. Ci salivo spesso, un po’ per farmi vedere da ragazze dormienti sui massi arroventati e, tanto, per l’effetto magia che provavo. Da quel punto, infatti, era sempre uno spasso guardare i colori di certi pesci che venivano fino a terra per mangiucchiare. E splendidi, da lì, erano i tetti bassi dell’antico borgo marinaro, specchiati a pastello sul letto d’acqua e sale. Scavate sui muri bacucchi, le finestre irregolari per forma e dimensione, a guardarle, contribuivano a farmi provare un ingenuo senso di novità. Visto dal mare, il passaggio dei turisti che si dinoccolavano per i vicoli di Chianalea mi faceva respirare l’aria festaiola delle domeniche d’agosto scillese. Insomma, un punto d’osservazione ideale.
Poi, acrobata provetto, pietra dopo pietra saltai le timide onde lunghe verso riva e mi ritrovai su scalini grattati dall'afa.
«Hai fame?» domandò Peppe.
Non era cambiato. La pelle cioccolato fondente, gli stessi solchi sulla fronte altera, i calli di sempre nelle mani piene dei tagli di lenze assassine. Gustai con calma, la stessa di quando mi trovavo in quel luogo, pane di grano con l’alalonga sottolio e una pioggia di olive salate. Salvo e Andrea, i figli del pescatore, mi guardavano con l’aria di chi sembra invidiarti. Ai loro piedi nudi, cento ami erano tutti da fissare ai corti braccioli di un conzo. Luccicavano come curve d’argento sul grigio dei gradini bucati in più parti.
«I ragazzi non mangiano?» chiesi al mio amico.
«Quando avranno fame…» replicò Peppe.
Arrivò il tramonto, puntuale e tiepido. La Nina era pronta, svogliata ed accalappiata a una bitta arrugginita. Avevo con me la lenza a mano regalatami dal pescatore e un cono di carta da pane, riempito a metà di gamberi puzzolenti. Qualche energico colpo di remi fu sufficiente per ritrovarmi nel mezzo di Marina Grande e non riuscivo a capire perché s’indugiasse a calare l’ancora. Peppe perdeva tempo a fissare l’acqua, prima di qua e poi di là. Ma, io penso ancora, il mare non è lo stesso, sia a destra che a sinistra della barca?
«Guarda questa cicatrice sul polso. Una volta, nel punto dove siamo adesso, tirai su una murena».
Era felice ed io con lui. I silenzi della sera non mettevano paura, anzi. Quella pace aiutava a riconoscermi nei miei anni. Ero un povero ragazzo ricco di vita. Poche lire, niente abiti griffati, paghetta zero e tanti sogni da fare, disfare e rifare.
«Non c’è niente. Questo mare oggi è una vasca da bagno!» dissi a Peppe.
«Niente fretta, Auré! Aspetta…» mi rispose a bassa voce.
Ripetutamente tirai su i miei tre ami da quattordici ma… neanche un mazzo di posidonia incontrata per errore. Lui, intanto, nel ventre della barca rovesciava donzelle e saraghi, tordi e gronchi, diletto e pacatezza. Finalmente il filo vibrò tra le mie dita come corda di chitarra rock:
«Deve essere grosso, Peppe!»
«Portalo su piano piano. Calma e gesso, Aure’!».
***
Maledetto cassonetto! Ora, davanti al mio caffè fumante, cerco disperatamente di inventarmelo, quel pesce. Passa un minuto e le guance si beano come ogni mattina del passaggio fluido del bilama. La cravatta multicolor sollecita il solito nodo perfetto. Il PC è da spegnere da ieri sera. Corro incontro all’ennesima giornata del lavoro redditizio, dei pretesti per consumare la vita, dei nuovi lampi del progresso. Bello sarà il mio futuro ma solo se staccherò il presente. Magnifico il mio passato e necessaria la mia gioventù, ma solo se la nostalgia arriva sonnambula e mai malinconia opprimente.
Il sogno di stanotte - l’avrò fatto all'alba di questo giorno nuovo - canta l’inno del normale. L’ordinario senso della vita oggi è ingarbugliato com’era ieri il filo della mia lenza, allorquando l’ammassavo sul fianco della Nina.
Questo mare oggi inquieto, a tratti così apparentemente accogliente, ricompone nella mia mente, a lenti fotogrammi, il ricordo di attimi indelebili e strazianti.
Quel pomeriggio di fine estate, tra ombrelloni chiusi e folate di libeccio, proprio di fronte alla struttura dello stabilimento balneare e poco oltre la battigia, giaceva il corpo inerme di un uomo di giovane età... si tentò l'impossibile per rinvenire quel soffio di vita che nessuno sarebbe stato in grado di restituirgli . I minuti passavano, e sembravano ore, pesavano come macigni.
A pochi passi, a lato delle cabine e inginocchiati sul selciato, due bambini ed una giovane madre pregavano ostinatamente perchè avvenisse il miracolo.
Le mani giunte, protese verso il cielo, l'intercalare all'unisono delle loro voci tremanti, invocavano quel Dio che non c'era...
Il mare ricorda, io lo so, io riconosco la sua lacerante inquietudine, che porta con sé rabbia e rassegnazione, la visione innocente dell'ineluttabile
Mi chiamo sasha, Sasha Gabry F.,
ho avuto un’infanzia serena e un’adolescenza così così per via del divorzio dei miei genitori.
Cresciuto un altro po’, avevo finalmente trovato l’indirizzo di studi che più si accostava ai miei interessi e mi ero messo sotto a studiare per dare più esami possibile e finire presto l’università: tutto ciò era il preludio per organizzare una vita mia.
Una notte di metà settembre ero in un locale, Les Brasseurs, con un gruppo di amici e stavamo valutando l’opportunità di prendere un appartamento in affitto in modo da risparmiare qualche soldo: quando si sta bene, si sa, il tempo scorre veloce ed era passata l’una, quando uno di questi amici, che reputavo tra i migliori, mi chiese di accompagnarlo a casa, con il motorino.
Inizialmente non volevo, perché per me la serata non era ancora finita e gli altri amici mi chiedevano di restare, ma Nils era talmente insistente che indossai giubbotto e casco e montai sul cinquantino per portarlo a destinazione.
La strada da percorrere non era neanche troppa e si procedeva senza fretta quando, ad un certo punto, qualcosa che non riuscii a identificare ci si parò davanti, restando quasi impietrito; per non investirlo sterzai bruscamente e questa manovra ci fece cadere malamente per terra.
Il mio amico ebbe la meglio e di lì a poco si rialzò sulle sue gambe, recuperò il casco che puntualmente non aveva allacciato ed era finito sul ciglio della strada e… forse per il trauma cranico o lo spavento, invece di soccorrermi riprese a piedi la strada di casa e mi lasciò da solo, con la faccia sull’asfalto.
Avevo dolori ovunque e vidi il sangue colarmi da qualche parte... Poi, buio totale.
Di quello che successe dopo me lo raccontarono mia madre e i miei fratelli maggiori.
Fui messo in coma farmacologico e poi operato un paio di volte al cuore per via dell’impatto avuto con la strada, e prima ancora con la parte anteriore del motorino, dove il mio corpo, appesantito da quello dell’amico, urtò violentemente. In parole povere mi si spaccò il cuore.
Ai ragazzi della mia età il cuore può spaccarsi per problemi d’amore; beh… io volevo fare di più!
Tra la fine di settembre e i primi di ottobre i medici, vedendo dei miglioramenti, provarono a farmi respirare da solo, senza macchinari, ma mi sa che hanno osato troppo; forse il cuore era ancora debole o era troppo massacrato perché delle mani umane potessero saperlo rimettere a posto; sicché la notte del 3 ottobre 2012, da che vedevo la televisione nella camera d’ospedale, a che mi sono ritrovato in un’altra dimensione e ooops… eccomi qua!
Certo, inizialmente ero incazzatissimo, perché avevo tutta una vita davanti… ma ormai, mi sono abituato a questo modo di vivere e per fortuna, anche nell’aldilà danno in dotazione il pc; da cui mi connetto e comunico con la Terra.
La cosa positiva dell’aldiqua è che non invecchierò mai; resterò sempre bello e muscoloso e qui, gli angeli boni sono richiesti!!! Una cosa, tra le tante, che mi diverte un botto è che stare quassù è come volare perennemente, avendo l’opportunità di gustare il mondo da altre prospettive.
E poi, di fico, è che vi vedo! posso entrare nelle vostre vite e sapere parecchie cosucce ma sono discreto… mi faccio gli affari miei e per vostra fortuna passo la maggior parte del tempo - infinito/eterno - a scrivere, scrivere, scrivere… senza che l’orologio mi assilli e soprattutto senza crescere di un giorno, alla faccia vostra!!!
Ebbene sì, avete capito che amo scrivere, specialmente poesie… che qualche volta parlano di questo mo(n)do, diversamente etereo, di vivere in altra dimensione.
Sono nato in Olanda nel 1989 - Fisicamente (si fa per dire!) residente in un parco stupendo di Ginevra dal 2012 - Trasferito successivamente in un punto X del creato, in compagnia di milioni e milioni di simili… e non potete capire che casino ci sia!!!
Vi aspetto… senza mettervi fretta
Ps:
non sono bravo in narrativa, quindi vi chiedo scusa se ho errato!
Anzi, correggetemi, voi che siete migliori!!!
Perdonatemi se questa presentazione ha un sapore decisamente spiritoso!
- non potevo proprio farne a meno!
- e vi assicuro che è l’età giovanile a rendermi così scanzonato e contrario ai luoghi comuni!
Mi fermo qui perché ogni frase pensata, in questo senso, non fa altro che farmi ridere… ahahah…