Leggero e invisibile nemico silente avanzi nelle nostre vite senza bussare alle porte dei nostri cuori, i sentieri sono afflitti dal pianto e lo stridore dei denti ora è malinconica melodia che aleggia nelle nostre menti
dove ogni nostra fiducia si scioglie nel fango delle tenebre nel momento in cui si spegne pian piano la vita segnando i tristi destini irrimediabilmente
in chi ha perso la battaglia, e non restan altro di loro che un numero che li identificano nelle memorie di quel registro ospedaliero segnato con l'inchiostro della necrosi. Dimmi chi sei veramente? Per lungo e in largo le tue scure orme hai impresso nelle nostre anime, lacrime amare a sorpresa
ci hai lasciato e lene speranze accendi negli angoli delle nostre case a riscaldarci di gelida psicosi fasciata da inquietudine.
Dimmi chi sei veramente? Dimmi chi sei veramente?! Ferrigno e
ben corazzato percorri la tua redola senza considerar la fragilità della nostra vita. Dimmi chi sei veramente? Dimmi chi sei veramente?Ma sappi o guerriero di questo tempo così periglioso di cui vuoi intingerlo di dolore
che spacca le viscere della pace, noi uomini donne e bambini siamo una umanità dalla quale di tutto puoi privarci tranne la speranza che mai nessuno può estinguere sul volto della terra, ossia quell'amore immenso
per la vita che mai nessuno potrà placare, neppure dopo la morte. Ma non si può neppure restare indifferenti allo sguardo del male quando ci sceglie sue predilette vittime, non puoi non tentare di osteggiarlo poiché è in noi la
fiamma della folgorante speranza mentre ci indica la strada della sua espugnazione.
Lui scenderà e scaverà fino in fondo al nostro più remoto essere per provarci e stancarci fino all'estremo, ma risaliremo se sapremo esser previdenti e circospetti in ogni sua mossa perché di pura speranza è
formato il nostro plasma mentre scorre positivo nelle vene. Lui invece così forte e superbo si fa sentire nell'anima quando i suoi abbracci avvolgono la vita dalla sua crudele morsa per farci suoi martiri nel suo preciso obbiettivo di defraudarci dagli affetti più cari, dai sorrisi sinceri di chi
amiamo debellando nell'intimo quanto è più prezioso per la nostra vitalità, protraendoci nel tunnel del supplizio ove non molte anime sapranno combattere le sue insidie. Sarà dunque una gran lotta e su una gran moltitudine di gente la sua ombra estenderà diventando loro imponente patrono, ma mai nel loro e nostro cuore noi che ancora siamo al sicuro! Perché proprietà sublime di quella luce fatta di vita ossia l'immortalità della speranza dentro l'anima che resterà in eterno in noi. Dunque dimmi chi sei o guerriero salito dall'inferno col mantello fatto di particelle untuose e avvelenate che al tuo scuoterlo ci allontani dalla libertà sconvolgendo ogni nostra libera scelta e stile di vita! Dillo chi sei perché noi ci siamo identificati! Ma sappi anche che sulla tua meditata rivincita su noi, sappi che saremo più preparati che mai a giocarci la partita perché incredibilmente audaci saremo nella vittoria, e finalmente tu sarai Covid-19 nella scaletta dei sconfitti e archiviati negli scaffali delle memorie del tempo di questo mondo per sempre.
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Profilo Autore: Laura Lapietra  

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Il suo zucchero a velo ancora caldo, roseo, perlato, svolazzava nella brezza lungo la Senna.
Il castano chiaro dei suoi capelli copriva le mie screpolate labbra.
Il sapore di balsamo e il profumo di smog parigino si fondevano nel mio olfatto contaminato da lei.

Sorrideva, guardando le giostre in lontananza fare capolino, tra le luci nascenti della città.
Il sole era ormai annegato nelle acque torbide, e nei suoi occhi rifletteva gli ultimi raggi.
Sentivamo un sassofono strillare sulla passerella, tra i viandanti smarriti.

Tese la mano verso di me e questa, sporca di zucchero, s’appiccicò alla mia.
Sotto la luna dell’innamoramento.
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Profilo Autore: Ruben Londero  

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No, non la vogliamo un’altra èra, se questi momenti sono miracoli miracolati e… quel giorno, che appariva ai nostri sensori come mite, ci stava regalando qualcosa di magico; la tua leggerezza e il mio innamoramento: momenti irripetibili.
Il tuo, il mio distacco dalla madre terra era così lieve che le mani quasi tremavano; mentre le luci cambiavano calore. I battiti dei nostri cuori incantavano ogni metronomo per la nitida simbiosi: l’un per l’altro, ad oltranza: un ticchettio odoroso di primule.
Ascoltavamo, abbandonati agli argini, quel brusio di stelle, che il cielo ci preparava come calda coperta; la notte avrebbe avuto la sua escursione ma i nostri corpi si sarebbero difesi con inesauribili abbracci: di quelli che penetrano ogni orgasmo, saturando gli aliti in dolci afflati.
Tu, se vuoi, sarai per sempre la mia èra ed io, se vuoi, resterò disteso sul tuo morbido ventre.
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Profilo Autore: sasha  

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E se quella ragazza non si fosse buttata sotto il treno?
Sono sul binario 13 e aspetto da trentatré minuti il mio treno.
È in ritardo. Non mi piacciono i ritardi. D’altronde, a chi piacciono?
In realtà mi piacciono. Si ferma il cosmo. Lo sento palpitare. Nella quiete dell’attesa.
Tengo il tempo con il piede destro, ma non sto ascoltando musica, è solo che reputo che la melodia degli uccellini meriti una buona linea ritmica.
Io credo fortemente che chi apprezza solo i chitarristi non abbia molta conoscenza musicale. Comunque, questi chitarristi sono divini. Volano in stormi da quattro o cinque l’uno. E roteano. Poi cantano, planando. E poi di nuovo su.
Sono stupendi. Ma ora ho la nausea a causa loro.
Non tengo più il tempo. Si fottano, non meritano il mio kick-drum ambientale.
Non appena smetto, entra sul palco una coreuta stonata.
È la voce robotica dell’altoparlante. Suggerisce di trovarsi un mezzo di trasporto alternativo perché sulla tratta prevista c’è stato un incidente.
Mi piacciono gli incidenti. Si ferma il cosmo. Lo sento palpitare. Decido di avvicinarmi a colui che sarebbe dovuto essere il controllore del mio treno. È un tipo in uniforme. Sta ritto sulla linea gialla e guarda prima a sinistra e poi a destra, come stesse cercando minuziosamente qualcosa. Assottiglia gli occhi e fa delle smorfie incomprensibili. Lo guardo attentamente, da capo a coda. Regge il suo cappello con il pollice e l’indice della mano destra. Ogni tanto lo sistema, il copricapo. A volte lo leva, si sistema i capelli. Poi lo usa come ventaglio. Fa caldo. Ora lo rimette. Mettendomi a fianco a lui, ma senza guardarlo, lo informo che ha la scarpa slacciata. La sinistra. Mi ringrazia.
Invece che piegarsi per allacciarla, si erge sul piede destro, in equilibrio. Si mette la valigetta tra i denti e porta il ginocchio sinistro all’altezza del bacino. Si allaccia la scarpa, con un nodo poco resistente.
“Dovrebbero farvi fare un corso di marina, a voi controllori.”, dico continuando a fissare di fronte a me.
“Scusa?”, risponde, con ancora la maniglia in bocca.
“Il nodo. È fatto male. Anche la cravatta a dire il vero. Posso?”, domando, senza dare nell’occhio.
Mettendomi di fronte a lui, sciolgo il nodo della sua cravatta. Lo rifaccio, spiegando passaggio per passaggio, mentre gli racconto una storiella che mi aiuta a non sbagliare.
“Il coniglio va nella tana, salta il ramo, si impicca. Et voilà!”
Robe così.
Il controllore mi ringrazia.
Mentre facevo il nodo, ho potuto osservare che il suo viso è colmo di rughe, i denti sono cariati e le labbra sono secche e screpolate. Sembrano delle ragnatele.
Tornando al mio posto, ripongo il mio sguardo sul puntino che stavo fissando prima, e nell’assenza del canto degli uccellini, chiedo: “Scusi, sa mica che tipo di incidente c’è stato?”
“A circa quaranta chilometri da qui, nel bel mezzo della campagna,
una ragazza si è lanciata sui binari. Sta abbastanza bene, fortunatamente era un treno merci a bassa velocità. L’ha solo sfiorata.
Sai, è pieno di ragazzi che fanno queste cose. Alcuni per sfida… Ti spiego. Immagina un gruppo di ragazzi spericolati. Mi segui?”
Sbuffando, annuisco. Annuisco, sbuffando. Sbuffo. Annuisco. Faccio sì con il capo, poi chiedo:
“Ci conosciamo? Mi sta dando del tu…”
“Oh! Tu sì che sei un tipo scaltro! Ma non vedi come sei vestito?
Dovrei darti del lei? Ma per cortesia!”, mi dice, mettendo in mostra le carie.
Non capisco. Sbuffo, annuisco. Lo lascio proseguire. Non capisco cos’abbiano i miei vestiti.
C’è vento, all’improvviso. Mi piace il vento, ma questo mi infastidisce. È come se aumentasse il volume della voce del controllore. Distolgo lo sguardo. Non funziona. Lo lascio proseguire.
Comunque, questi ragazzi si mettono sugli argini della ferrovia. Hai mica presente quell’ammasso di ciottoli a lato delle rotaie? Be’, loro si siedono esattamente lì, e aspettano il treno, sbuffando.
Aspettano, sbuffano.
Quando arriva, giocano ad attraversare le parallele. Vince chi attraversa per ultimo. Sì, insomma, chi attraversa più vicino al passaggio del treno. Che stupidi ragazzini!
Ad ogni modo, ogni tanto c’è qualcuno che questo gesto lo fa per davvero. Intendo, non per gioco. Ti chiederai forse come facciamo a capire la dinamica… È più facile di quanto credi!
Quando sono in gruppo, quegli stupidi degli amici della vittima piangono, piangono per tutto l’interrogatorio.
Come dici?
Se faccio io gli interrogatori? Ah no! Quelle sono cose per gente che ha studiato! Però spesso assisto.
Invece, ti dicevo, quando la vittima è da sola, insomma, quando ha deciso di farlo, in quelle occasioni non c’è mai nessuno sul luogo dell’incidente. E nessuno piange.”
Non sono un tipo molto eloquente. Quindi faccio un cenno di comprensione. Anzi, un cenno quasi sconvolto. Mi accorgo di aver fatto due cenni diversi. Ne faccio un terzo, arrabbiato.
Non rispondo. Penso. Dev’essere proprio uno schifo sopravvivere a questa cosa.
“Se devi farlo, fallo bene!”
Mi accorgo di averlo detto ad alta voce. Il controllore mi guarda male, sbuffando. Lo saluto. Mi sposto di qualche passo. Mi arresto.
Guardo l’orologio e mi accorgo che è tardi. Mi avvicino al tabellone degli autobus e scelgo quello con il numero più bello. La somma delle cifre dev’essere pari.
Scorro con lo sguardo, dall’alto verso il basso. Non ci vedo, c’è il riflesso.
Mi infilo gli occhiali da sole.
“34, tre più quattro, sette. No.”
Mi aiuto con il dito, per leggere da sinistra verso destra.
Sono nervoso. E ho anche fame. Ma non così tanta. Sete invece ne ho. Ma non posso bere. Se bevo poi devo andare in bagno. Non posso andare in bagno sull’autobus. Mi vedrebbero tutti, mentre mi alzo. Penserebbero che mi sto alzando per dirottare il bus. A quanto pare vestito così non sono rassicurante.
Non posso bere. Fortunatamente non piove.
“78, sette e otto, quindici. Quindici è uno e cinque. Uno e cinque fa sei.”
Il sei non mi piace.
Il prossimo è il 62.
Sei e due, otto. Bene!”
Vado in biglietteria, pago. Esco. Aspetto. Guardo l’orologio. Mi accorgo che sono ancora in stazione dei treni, forse è meglio se vado a quella dei pullman.
È già lì che mi aspetta. Salgo. Mi trovo sul pullman 62.
Sistemo la mia roba casualmente. La corriera parte. Io con lei.
Sono molto teso. Levo gli occhiali da sole, perché si sono appannati. Ho caldo.
Mi tremano i pollici. Le ginocchia cedono, eppure sono seduto. Non riesco a stare seduto.
Mi prude la zona lombare. Ho sbagliato a mettere il maglione. La lana si appiccica al sudore. Mi prude la zona lombare.
Fa caldo, troppo caldo. L’aria condizionata è rotta, me l’hanno detto appena salito. Aprire i finestrini a questa velocità non è una grande idea. Ma ne avrei voglia.
Fa caldo.
Decido di distrarmi, guardando fuori. Oramai è calato il sole. È calato ma non è svanito, ha deciso di riscaldarci ancora un po’ proiettando il meglio di sé.
Il cielo sembra la tavolozza dei colori di un pittore. Sembrerebbe mescolare blu cobalto e magenta. La muta tonalità muta ad ogni mio respiro, mi sento un po’ artefice della sublimità. Mi manca il fiato.
Chissà come il cielo dipinge me! Magari mi sta guardando, attraverso il vetro del finestrino!
Prendo due respiri profondi. Al terzo trattengo più che posso. Poi, quando sto per morire, mollo. Non mi piacerebbe morire su un bus. Ho sempre paura che, se dovesse accadere, getterebbero il mio corpo in un canale. Odio le nutrie. Non vorrei farmi mangiare dalle nutrie. Una volta mi hanno morso.
Mentre il cielo si fa più tenue e cupo, vedo con la coda dell’occhio una coppia di volti avvicinarsi a me.
Non capisco da dove sbuchino. Siamo partiti già da qualche minuto. Stanno cercando sedili liberi. Ma siamo già partiti. Perché?
Dalle loro movenze sembra non trovino posto per sedersi accanto.
Questo pullman fa tratte lunghe, quindi è abbastanza confortevole.
I posti sono da quattro, come quelli di un treno. C’è un tavolo reclinabile sopra le mie ginocchia, come in un treno.
Sul sedile davanti ed accanto a me ho tutta la mia roba: una borsa da viaggio rossa, uno zaino grigio e una valigetta rigida per il computer e i libri, come in un treno.
Uno dei due volti richiama la mia attenzione domandando, con tono melanconico ma cortese, come in un treno:
“Sarebbe possibile sedersi?”
Sto ancora guardando fuori. Non voglio ingannarmi: ascolto senza guardare. Costruisco un’immagine nella mia testa. Quando è completa, riascolto mentalmente la voce e decido se la voce si addice al volto che ho creato.
La voce è nuda. Tersa. Di donna.
Sembra trovarsi fuori posto. Sembra non sappia dove si sta dirigendo. La capisco. Ciononostante, è in compagnia di un altro volto.
Secondo me ha i capelli chiari, biondi. Occhi tra il grigio ed il verde, da fata. Da fata? Ma che cazzo. Labbra sottili ma carnose, anche se non so se sia possibile.
Annuisco, senza guardare.
Ruotando leggermente il capo, sorrido.
Non mi sono nemmeno sforzato di sorridere. Tuttavia, temo di aver perso il conto dei cavi metallici dei tralicci, sospesi e magnificamente illuminati nella campagna.
Non corrisponde affatto al mio identikit. Sono un po’ deluso.
A questo punto comincio a temere di dover trascorrere il resto del tragitto con il volto immerso nella mia visione periferica. Ho sbagliato, cazzo. Potevo rispondere che era occupato. Insomma, potevo dire che ero in compagnia e che il mio compagno era in bagno. Ma no! Non sarei stato credibile. Non ho proprio l’attitudine di una persona che viaggia in compagnia. Guarda come sono vestito.
Dalle mie borse sembra quasi che io mi stia trasferendo, in pullman.
Ma chi voglio prendere in giro? Trasferirsi non servirebbe a nulla. Tanto non basta cambiare posto per cambiare le cose.
Fingo di essere in viaggio per lavoro. Come faccio? Sono vestito malissimo, non ho il giornale e soprattutto sembro un cane bastonato.
Avete mai visto un azionista con il volto da cane bastonato? Che viaggia in bus?
Perché hai acconsentito? Perché hai acconsentito? Perché hai acconsentito?
Era tutto così perfetto. Il cielo, il pittore, i tralicci. I tralicci, cazzo! Quanti erano? Contavo i tralicci o i cavi?
Ricomincio, contando però i lampioni.
Vedo l’ombra del bus muoversi in modo ambiguo. Prima la superiamo. Poi lei supera noi. Com’è possibile? Avrei dovuto fare il liceo scientifico. Forse così lo saprei.
Nel frattempo, l’altro volto si era accomodato maleducatamente nel tavolino dall’altro lato del corridoio, senza chiedere se fosse disponibile.
Con una rapida torsione del collo, osservo che, a dire il vero, l’altro gruppo di posti è completamente vuoto.
Perché hai acconsentito?
E perché lei non è di là? Perché è nella mia visione periferica? Perché ora la vedo anche se guardo fuori dal finestrino?
Questa la so! Perché ormai è notte e il vetro riflette il suo volto!
Sono sollevato… Non serve fare lo scientifico, allora!
Smetto di guardare fuori. Prendo un libro dei miei, quello con la copertina più intrigante.
Sono indeciso tra Viaggio al termine della notte e Gravità.
Scelgo il primo, ma solo perché il nome dello scrittore suona bene. E anche perché è il nome di una marca di lusso. Forse sembro un azionista così.
Questo libro è troppo difficile per me. Lo uso solo per guardare il volto senza farmi vedere.
Faccio capolino, mentre sfoglio le pagine di tanto in tanto.
Il volto è tenace e ribelle, ma pavido allo stesso tempo.
Dev’essere proprio speciale, questo volto. È riuscito a sottrarmi dal dipinto esterno al pullman. Decido di concedergli il mio tempo.
Smettendo di guardare il vuoto davanti a sé, il volto mi imita, prendendo un libro dalla sua borsa floreale, appoggiata sulle ginocchia.
Dà un’occhiata fugace al retro. Deve averlo appena comprato, dato che sta leggendo la trama.
Capisco che gliel’hanno regalato quando strappa vertiginosamente un adesivo messo sopra il prezzo. Si stupisce. Forse pensava costasse meno. Alza lo sguardo, si rimprovera, lo riabbassa.
Quando lo apre, noto che la copertina è brutalmente monocromatica.
Ne deduco che è un classico, forse un’edizione antica. Minimale. Contiene solo parole, senz’apparire troppo.
Non capisco di che libro si tratti, ma ha la copertina rigida, con il titolo in oro cromato su sfondo bordeaux. Sembra confortevole al tatto.
Non riesco a leggere il titolo, darei troppo nell’occhio.
Il volto va alla prima pagina, saltando a piè pari l’introduzione. O almeno credo.
Nonostante le sue movenze nella lettura non promettano chissà quale esperienza, il suo occhio fagocitante mi fa ricredere.
Sprofondato nella lettura, il volto comincia improvvisamente a dare segnali di dubbio. È incerto. Ma di cosa?
Scommetto che si sta chiedendo se quelle siano le parole corrette per colmare il suo vuoto pneumatico, o se stiano solo peggiorando le cose.
Sono, le parole, una chiamata notturna ai vigili del fuoco, o molecole di gas disperse tra l’ossigeno?
Agitato, il volto chiude il libro con forza, come volesse sigillarlo.
Arresta il suo sguardo, poi lo riapre.
Va all’ultima pagina e riprende la lettura da lì. Dall’ultima pagina? Perché? Che significa, se significa qualcosa? Perché dovrebbe significare qualcosa? Cosa significa significare?
Sollevato, chiude il libro. Sorride, come lo avesse letto per intero.
Alza il culo di poco, quanto basta per prendere dalla tasca il suo walkman. Aspetta, un walkman? Un walkman. D’accordo, un walkman. Ma perché un walkman?
Accorgendosi di non avere le cuffie, si rivolge all’altro volto:
“Dammi le cuffie.”
“Le sto usando, non vedi?”, rispose l’altro con tono insignificante.
“Dammele, ho detto. E, quanto manca?”
L’altro volto si leva le cuffie e sbuffando gliele passa, senza guardarlo. Annuendo, e sbuffando, risponde:
“Un’oretta.”
Soddisfatto, il mio volto collega il cavo all’apparecchio, appoggiando le cuffie sovraurali sui suoi padiglioni.
Preme un tasto più volte, dev’essere quello del volume. Ora preme play.
Comincia a muovere il capo avanti e indietro, a tempo, canticchiando sottovoce.
Cerco di leggere il labiale, ma ho sempre Viaggio al termine della notte sul naso. Non capisco.
Chiudo il libro e la smetto con il diversivo, tanto è talmente immerso nella musica che il volto non si accorgerebbe nemmeno di un incidente.
Mi piacciono gli incidenti. Si ferma il cosmo. Lo sento palpitare.
Preme altre due volte sul tasto del volume, come volesse rendermi partecipe del tutto.
“Ce l’ho!” , esclamo senza saperlo.
Metà dei passeggeri si gira verso di me. Noto anche lo sguardo inquisitore dell’autista, dallo specchietto che dà sul corridoio.
Molti scuotono il capo nei loro sedili. Devo proprio averli svegliati.
Il volto alza le cuffie e mi chiede:
“Tutto bene?”
“Janis Joplin?”, rispondo.
“Janis Joplin! Mercedes-Benz.”, esclama sottovoce.
“No, guarda, questo pullman non è della Mercedes.”, dico io, scrocchiandomi le dita delle mani.
“Che stupido… Mercedes-Benz è la canzone, di Janis.”,  asserisce rimproverandomi.
“Ah! La canzone. La canzone, giusto. La canzone. Aspetta, quale canzone?”, domando io, confuso.
“Be’, quella che sto ascoltando, no? Vuoi unirti a me? Cioè, vuoi sederti qui così senti meglio? Posso alzare il volume, se vuoi.”, chiese dolcemente.
“Volentieri. Però, vedi… Stanno dormendo tutti. Temo di averli appena svegliati gridando. Forse non è una grande idea.”, gli dissi fiero del mio senso civico.
“Si fottano. Sono tutti decrepiti nel loro sonno. Avanti, vieni. Posso poggiare a terra la tua roba? La prossima è di Ray Charles! Questa è una cassetta che ho fatto io.”
 
Stop! Stop! E stoooop!
Angela! Quante volte devo dirtelo che è Muddy Waters, non Ray Charles!
Ripassa le battute… Per il resto, ottimo lavoro! Spegnete il green screen! Per oggi va bene così! Bravi tutti.
Roberto, domani riprendiamo da questa battuta. Poi seguono le riprese di quando scendi dal treno e rincorri Angela.
Va a riposarti ora. E fa’ sonni tranquilli, sei nella parte alla grande!
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Profilo Autore: Ruben Londero  

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Al porto quel giorno Chiara volle esserci anche lei ad accogliermi.
Insieme a Nino un caro amico di famiglia, quella famiglia che avevo perduto in un bruttissimo incidente, dal quale solo io rimasi illeso ma questa è un altra storia.
Durante questo viaggio non feci altro che ripensare, che finalmente avrei potuto vedere un volto amico, una cara persona che mi riportava a quelle che erano le mie radici, a quella parte integrante di me.
Vi era un sole caldo che confortava! Nino mi vide, mi chiamò ad alta voce agitando le braccia, ma ad attirare la mia attenzione fu anche quella giovane donna al suo fianco, che con fare garbato se ne stava li indossando una gioia celata, con quella felicità di condividere quel bel momento come se attendesse da tempo di vedere quel qualcuno, che lei fino al giorno prima aveva potuto solo immaginare. Mi attendeva come se fossi stato un caro amico.
Mi avvicinai stringendo Nino in un caloroso abbraccio, quanti gli anni passati, ma lui mi disse che mi avrebbe riconosciuto tra tanti.
Restò in tanto il come, sul fatto stesso di come avesse fatto a riconoscermi, visto che non ero più il bambino che vide l'ultima volta.
Mi presentò Chiara sua nipote! Persona timida, bella come quelle parole che non riesci a dire e a trovare in tali circostanze.
Forse la mia felicità nasceva in quell'istante! Non avrei potuto fare più a meno di quel viso, dei suoi occhi, del attimo in cui avrebbe sorriso ed incantato così la mia anima.
Passarono i giorni, dei giorni belli, ed avevo costruito in così poco tempo, un pizzico di tanta desiderata felicità.
Non mi sentii affatto un ospite in quella tenuta, ma giunse il giorno della partenza.
Preparando i bagagli, speravo ancora in un gesto, che io non ero in grado di fare, ma in quei giorni mai un accenno da parte sua, mai un segno che potesse far capire un qualcosa in modo chiaro, in modo che io potessi spiegarle.
Per Chiara forse, anzi di certo, ero un amico. Solo un amico caro!
Arrivammo al porto, stavo per andare via con dentro di me, un forte sentimento taciuto, di certo il più forte che avessi mai provato prima.
Salutandoli sulla banchina del molo, mi celavo dietro un sorriso, amaro come non mai.
Ci rivedremo Andrea, stai tranquillo! Così mi diceva Nino facendomi pensare ad un probabile ritorno ad una sua disponibilità sempre presente.
Mi raccomando riguardati!
Sapevo, andato via che fossi, quello sarebbe stato un addio.
La nave parti non potei più scendervi, ma trovai il coraggio di gridare una parola rivolta a lei, non ti dimenticherò
Il pianto in tanto inizio a sgorgare imperterrito da gli occhi di Chiara.
Non potei dimenticare quello sguardo disperatamente affranto.
Son passati anni da allora, ed i suoi occhi di un azzurro così intenso sono ancora qui impressi nella mia mente, lucidi più che mai. Laghi profondi bisognosi di quiete.
Apparentemente esile nel suo aspetto, così elegante nel suo portamento, capelli neri, raccolti e sempre in ordine, la sua pelle come il suo nome, delicata, quasi evanescente bella come il petalo del ramo di pesco, come le cose più irraggiungibili e quindi le più desiderate.
Una donna estremamente sensibile dall'intelletto poderoso, capace di suscitare emozioni ineguagliabili, vivacemente forti, così da farti perdere completamente la testa e follemente innamorare.
Restò il fatto che ci siamo ritrovati e da qui non ci siamo mai più perduti.

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Profilo Autore: Vincenzo Russo*   Socio sostenitore del Club Poetico dal 29-11-2022

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E se tutto questo fosse finto?

Se scoprissimo che ogni atto, ogni parola ed ogni sentimento fossero frutto di formule complesse,

capire che tutto, compreso questo testo, è stato previsto, calcolato e premeditato, per propagare,

calibrare e sistemare questa umanità cosi,

esattamente cosi come siamo, senza scampo, senza scelta

se poi trovassimo invece una falla, un errore,

allora si, saremmo degli Dei,

controllare le anomalie, capire le imperfezioni sintattiche di un programma simulato

e se poi ci accorgessimo che la stessa anomalia, errore fosse già impostata, calcolate e previste

allora

alla fine

capiremmo che il destino è segnato

non c’è motivo di disperarsi non può andare altrimenti

procediamo tassello dopo tassello

stringa dopo stringa

fino alla fine

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Profilo Autore: Luto  

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Ho incontrato la Cantatrice calva che aspettava Godot insieme ai Promessi sposi per andare in treno a trovare i Fratelli Karamazov, Jacopo Ortis, Liolà e le Sorelle Materassi. Dovevano festeggiare Don Chisciotte, Il maestro di Vigevano e Robin Hood che aveva attraversato il Deserto dei Tartari insieme alla monaca di Monza e ad un gruppo di carmelitane con le calze perché avevano freddo ai piedi.
Era iI 1984 e, dopo un periodo di Guerra e pace in cui c'era stata ogni sorta di Delitto e castigo, A sangue freddo, guardando il Ritratto di Dorian Gray senza Orgoglio e pregiudizio giunsi, dopo una rullata di un Tamburo di latta, a sostenere che Il conte di Montecristo e il Gattopardo erano andati alla Ricerca di un mondo perduto per raggiungere addirittura  l'Insostenibile leggerezza dell'essere...oh..boia Faust !!..  per questa cosa mi son rotto proprio i Buddenbrook...!
Comunque, in una notte di Cime tempestose io, Lolita, Ulisse e Pippi calze lunghe decidemmo, per dimenticare questo Giorno dello sciacallo, di cercare un'Isola del tesoro e dimenticare tutti i Fiori del male e cercare il Nome della rosa tra le Anime morte della Casa degli spiriti e sognare le Mille e una notte come Alice nel paese delle Meraviglie... Così parlò Zarathustra..!!
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Profilo Autore: Ferruccio Frontini  

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Erano passati anni dall’ultima volta in cui Gianfranco prese un aereo.
Aveva con sé solo uno zaino, e nemmeno lui sapeva che cosa contenesse, voleva solo sembrare un turista qualsiasi, voleva solo essere invisibile. Aspettò il primo taxi che passava di lì e, come si faceva una volta, lo fermò con la mano destra che sfiorava le caustiche nubi.
Quando salì, il tassista gli apparve sconsolato, tanto quanto lui ed il suo viaggio imminente.
“Dove la porto?”, chiese il navigatore abissale.
“All’aeroporto più lontano da qui. Ma sappia che ho solo 74 euro.”, rispose Gianfranco noncurante delle banconote sperperate.
Con un cenno, il tassista infilò la prima e, dopo aver controllato in modo assente lo specchietto sinistro, rilasciò la frizione in modo tutt’altro che delicato, come se stesse facendo un esame di guida.
“Sa, signore, dopo trentadue anni di questo lavoro di merda, ne ho sentite di richieste stravaganti, talvolta anche insoddisfacibili, ma la sua…
La sua ha appena vinto una medaglia d’oro,”, disse, mentre contorcendosi distese all’indietro la mano destra a cucchiaio, e continuò, “vuole una mentina?”
“Se anche fosse una pasticca di cianuro, mi farebbe solo un piacere.”, pensò Gianfranco accettando, incerto se avesse solo pensato quelle cose o se le avesse sputate sul tappetino dell’auto.
“Non vorrei sembrarle indiscreto, ma dove si sta dirigendo?”, chiese cambiando marcia, mentre ormai erano alle porte della città.
“Credo farò un sorteggio tra le destinazioni del tabellone delle partenze.”, rispose Gianfranco.
“Audace da parte sua, signor…?”, disse il numero di matricola 692 dell’Associazione Tassisti Bolognesi.
“Tonelli. Mi chiamo Gianfranco Tonelli.”, replicò inventandosi un cognome. Gianfranco era paralizzato, e si spostò dal sedile destro a quello centrale, che, seppur più scomodo, permetteva la visuale e del tassametro e della strada.
Prese il taccuino dallo zaino e, accorgendosi di aver lasciato la sua stilografica nell’ormai ex casa, proferì: “Mi scusi, avrebbe per caso una penna?”
Gianfranco cominciò a tossire incessantemente, e, come se avesse delle convulsioni, si contraeva. 692 accostò tempestivamente.
Slacciandosi la cintura, infilò la testa nel loculo tra i due sedili, e disse: “Va tutto bene?”
“Una penna! Una fottuta penna. Ha una penna?”, esclamò con tono interrogativo, sotto lo sguardo incredulo del pelato.
“S-sì, ce l’ho una penna.”, rispose passandogliela, mentre si riallacciava la cintura scuotendo il capo.
“È blu? Ma chi le usa le penne blu?”, pensò, sperando anche questa volta di non aver aperto bocca, poi scrisse:

Quando leggerai queste ultime parole, chissà dove sarai. Chissà cos’avrai provato. Chissà dove sarò io. O forse lo so, forse starò scrivendo su un altro pezzetto di carta, strappato chissà dove. Ho sbagliato tutto, ma a te non è importato. A te bastava sapere che respiravo ancora. Non dovrebbe interessarci della parola “amore”. Chi cazzo lo saprà mai cos’è l’amore? Forse solo chi l’ha inventato. Vorrei solo un po’ delle tue sapide lacrime ora, per poter disinfettare il mio sangue. Ma, in fondo, quei due liquidi sono passeggeri, sono più fugaci della paura. Il liquido che conta è questo, questo blu del cazzo, che ora sta diventando nero a forza di spremerci gli occhi sopra. Questo è Gianfranco su carta, e Gianfranco spera che tu possa capire.

Firmò, e poi si zittì per il resto del tragitto.
Una volta arrivato, con il tassametro fermo a 68 euro, Gianfranco diede il portafoglio ed il pezzo di carta al tassista, e disse:
“Dia questo foglio alla prima donna sola che vede per strada, e le dica che l’ho amata. Arrivederla."



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Profilo Autore: Ruben Londero  

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A volte le parole non servono; oppure ne servono davvero poche. Guardi negli occhi una persona e cogli tutta una vita.
Qualche anno fa decisi di percorrere la Via Tosco Romagnola dall’inizio (Pisa) alla fine (Forlì) e fare poi una puntata nell’entroterra romagnolo. A scanso di equivoci: no trekking, no mountain bike. Non sono mai stato tipo da avventure di questo tipo!
Auto, cartine del Touring Club (i navigatori satellitari all’epoca erano forse nel pensiero di chi poi li avrebbe inventati), e via, attraversando città, borghi di interesse storico ed artistico, e natura ancora poco sfruttata dal punto di vista turistico commerciale.
A metà del guado, cioè in piena attraversata dell’Appennino tosco-emiliano, arriva l’ora di pranzo. E il destino volle che proprio su un impegnativo tornante campeggiasse l’insegna “Trattoria da Spartaco”.
Ci fermammo; locale bruttino, scarsa igiene, pochissimi avventori. E lui, Spartaco, il proprietario: spiccatissimo accento romano, che non avrebbe perso neppure vivendo cent’anni altrove; capelli bianchi, lunghi, raccolti in una coda sulla nuca; età indefinibile, e due occhi chiarissimi in un viso scavato, segnato da rughe, da pieghe amare, che lasciavano trasparire un vissuto non allegrissimo.
“Abbiate pazienza se dovete aspettare un po’, ma oggi lo chef è svogliato… adesso lo richiamo all’ordine … Marco, dai, mettiti ai fornelli!”
Andando in bagno, passai vicino alla cucina: ai fornelli c’era lui, Spartaco. Era chiaro che lì c’era solo lui: proprietario, cameriere, cuoco… Ma non dissi niente, anche se guardandoci capimmo che lui aveva capito che io avevo capito.
Pagando (pochissimo, per la verità) gli chiesi: “A Spartaco, ma che ce fai qui?” Rispose con tre sole parole: “E’ la vita”. Tre parole che mi hanno accompagnato, incuriosito, commosso, insieme ai suoi occhi tristi e alla sua vita travagliata e dignitosa, racchiusa nel suo sguardo. Una vita della quale non sapevo niente, ma della quale intuivo tutto.
E’ la vita; tornando quest’anno in quel luogo speravo di ritrovarlo. Niente da fare: non c’è più l’insegna, non c’è più il locale pieno di fumo e povero di clienti. Chiedo a una signora che abita nelle vicinanze: “No, se n’è andato tre anni fa”. E’ la vita; è la vita anche quando la vita non c’è più!
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Profilo Autore: Andrea Guidi  

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NOVE PIANI

“Ascensore guasto”
Oh, che disgrazia! Ma come era possibile? Perché quel malefico ascensore aveva scelto proprio quel pomeriggio per rompersi? Olga non avrebbe mai immaginato, varcando la soglia del suo condominio, che si sarebbe trovata a dover affrontare nove piani a piedi per arrivare a casa. Restò immobile per qualche secondo fissando quel foglio incollato con lo scotch, rileggendo quelle due spietate parole per almeno tre o quattro volte, come se magicamente potessero sparire o mutare. Infine si convinse che era tutto vero: l'ascensore era guasto, e l'unico modo per arrivare a casa, all'ultimo piano, era usare le proprie energie affrontando l'impegnativa salita. Con rassegnazione Olga percorse quei pochi passi fino all'inizio della prima rampa di scale. Era abituata al comodo ascensore, al suo consueto odore e rumore, allo specchio in cui si rifletteva durante la salita, alla lampadina sul soffitto e alle porte che si aprivano puntuali 3 secondi dopo l'arrivo al piano. Quel pomeriggio invece, 180 scalini l'attendevano minacciosi piano dopo piano fino all'agognato traguardo costituito dal suo amato appartamento. Come se non bastasse Olga quel pomeriggio non era rientrata a mani vuote: aveva due grandi borse piene di roba, per svariati chilogrammi di peso. "Accidenti alla mia voglia di fare shopping proprio oggi!" si rimproverò. Aveva passato la mattina al centro commerciale, dove aveva anche pranzato, e durante quelle ore aveva visitato un bel po’ di negozi. Quando era uscita di casa al mattino l'ascensore funzionava, invece al suo ritorno, carica di acquisti, aveva trovato questa bella sorpresa del guasto!

"Olga", disse a se stessa, "ormai ci sei e ti tocca salire, non puoi sottrarti, coraggio, tira fuori l'energia e ce la farai!".
Il suo piede destro toccò il primo dei quei 180 impietosi gradini. Da dietro la porta dell'interno 1 proveniva il pianto di un neonato: era il figlio di un mese dei signori Bianchi. Olga nell'udire il pianto vigoroso di quella nuova vita, così piccola ma già così potente da farsi sentire a grande distanza, si caricò di ottimismo, e sentì un'ondata di energia che le mise un motore alle gambe! Pensò a quando era piccola, ai suoi primi ricordi: il suo orsetto di pelouche, il suo lettino, il bacio della buonanotte della mamma, i giochi con sua sorella di 3 anni più grande di lei (che quando era piccola le sembrava un gigante!), l'asilo, il suo grembiulino a quadretti rosa, la dolce maestra dai capelli rossi di cui però non ricordava il nome. E così via, passando attraverso le scuole elementari, le prime amicizie, le gite, il Natale in famiglia, i pranzi a casa dei nonni, gli incontri con i parenti, i cartoni in tv, le merendine da scartare, la maxi torta dei suoi 10 anni! Quando era una bambina tutto le sembrava più grande, tutto la incuriosiva e la sua voglia di capire e di esplorare non si esauriva mai. Certo, c'erano anche le cose meno belle: le lezioni di matematica, il buio della notte, i ragni sul soffitto e l'odiato merluzzo che ogni venerdì sua madre pretendeva mangiasse! Per non parlare della vecchietta acida dell'appartamento accanto che si lamentava sempre del rumore che lei e sua sorella facevano quando giocavano e del volume della tv troppo alto. 
Con questi pensieri il primo piano di scale letteralmente volò via. Olga neanche si accorse di stare già salendo la rampa che conduceva al secondo piano. Continuando ad esaminare i ricordi della sua vita, passò alla sua adolescenza, un periodo un po’ strano: il suo corpo che cambiava assumendo fattezze di donna, la scuola che si faceva più impegnativa, le compagne di classe antipatiche, il bel ragazzino dagli occhi verdi che però aveva simpatia per la sua compagna di banco, i programmi televisivi fatti di persone e non più di cartoni animati, le prime uscite di casa da sola, la difficile scelta della scuola superiore, i primi batticuori, il primo fidanzatino, i litigi  con i genitori e la sorella, e la sua amica del cuore dell’epoca (chissà che fine aveva fatto?) con cui condivideva sogni e paure. In compagnia di questi ricordi che le procuravano una dolce nostalgia e tanta tenerezza, giunse brillantemente al secondo piano!
La terza rampa di scale l'accolse che era ancora piena di energie, ma non poté fare a meno di notare un cambiamento dentro di sé, come una presa di coscienza del punto a cui era arrivata: l'attendeva ancora la maggior parte del viaggio, e le cose iniziavano a farsi serie, proprio come quando nel suo terzo decennio di vita, dopo aver entusiasticamente spento le candeline dei venti anni, passò anni cruciali a costruire la sua futura vita lavorativa e familiare, studiando, lavorando, facendo progetti per il futuro, risparmiando insieme al suo fidanzato per comprare casa, mettendo le basi per costruire una nuova famiglia. Quelli erano i fatidici anni in cui tutto era niente e niente era tutto. Da ventenne Olga non era stata mai ferma, in una continua altalena tra divertimenti e impegni di ogni genere! Nel ripensare a quel periodo Olga sentì dei brividi: l'importanza delle scelte fatte e dei rischi corsi era stata immensa tra i venti e i trenta anni d’età, avrebbe segnato tutto il resto della sua vita, ma ce l’aveva fatta: aveva raggiunto quel fatidico terzo piano tornando con il pensiero al suo trentesimo compleanno, il momento in cui, con orgoglio ma anche con un pizzico di amarezza, si era sentita davvero adulta!
Ora si apprestava a salire i gradini che conducevano dal terzo al quarto piano, che con la memoria l’avrebbe ricondotta fino ai 40 anni: ormai era giunta abbastanza in alto e a quel punto Olga (la quale si ripeteva spesso che avrebbe dovuto fare un po’ più di moto!) iniziò ad avvertire non proprio fatica, ma le gambe che cominciavano a farsi più pesanti, sicuramente per il carico non indifferente che portava con sé, proprio come le giornate del suo quarto decennio di vita, così intense tra il lavoro, i figli piccoli, la miriade di impegni quotidiani da portare a termine, il tempo e i soldi che sembravano non bastare mai, ma che per fortuna alla fine bastavano sempre! Con fatica, pazienza e tanto amore si andava avanti giorno per giorno, gradino per gradino, e così ecco arrivare nei ricordi la deliziosa ma terribile torta dei 40 anni, così odiati dalle donne perché per secoli considerati la fine del fascino femminile e l’inizio dell’età “matura”! Olga era ormai a metà della scalata. "Nel mezzo del cammin di nostra vita" avrebbe detto Dante. Il quinto decennio della sua vita, ovvero l'età in cui si trovava in quel momento, esattamente tra i 40 e i 50 anni. Olga sentiva l'inizio di un cambiamento nel suo respiro, che si faceva più difficoltoso nel salire la rampa dal quarto al quinto piano. Una nuova consapevolezza, una diversa visione della vita, si affacciarono nella sua mente ripensando al suo presente: non si sentiva più una ragazza, ma ovviamente neppure anziana, era una donna come tante, con il lavoro quotidiano fuori e dentro casa, le soddisfazioni ma anche i problemi dati dai figli che crescevano, il rapporto con il marito che spesso risentiva della monotonia del tran tran quotidiano (dopo tanti anni insieme ormai!) , ma che a volte, come per magia, conosceva nuovi picchi di intensità e bellezza, e in quei momenti Olga sentiva chiaramente che nessun altro uomo avrebbe potuto sostituire "il suo"!
Faticoso ma emozionante quel quinto decennio, una vera sfida a restare in piedi, ad andare avanti nella scalata! Ormai ciò che era passato e ciò che restava si equivalevano, e da quell'altezza poteva osservare, dalla finestra del pianerottolo, la città farsi un po’ più piccola ai suoi occhi. Molta strada era stata percorsa e molta era ancora da percorrere, molti obiettivi raggiunti ed altri ancora da raggiungere. Intanto anche il suo corpo stava cambiando: qualche piccola ruga intorno agli occhi faceva malignamente capolino, e benediva l'inventore della tintura per capelli, con cui poteva coprire i primi fili d'argento. Certamente anche la linea non era più quella di un tempo, ma qualche centimetro di giro fianchi in più non era un gran prezzo da pagare se confrontato con tutto ciò che aveva vissuto, realizzato e imparato in quella prima emozionante metà della vita. Ormai esistevano tante persone più giovani di lei a cui poter dare consigli, e tante persone più anziane di cui ascoltare i consigli. Un equilibrio perfetto! Ma Olga non poteva fermarsi! Con quel suo carico che si faceva via via più pesante, le braccia e le gambe indolenzite e il fiato un po’ più corto, ecco che si accingeva ad affrontare la scala tra il quinto e il sesto piano. Olga aveva ancora una discreta riserva di energie, ma certamente sarebbe tornata volentieri alle sensazioni dei primi piani, quando si sentiva un fiore appena sbocciato, nel pieno della sua bellezza, e l'entusiasmo dentro di lei non era stato ancora attenuato dalla fatica, che ora cominciava a farsi sentire. Tuttavia Olga proseguì abbastanza speditamente lungo quei gradini della sesta decade, che rappresentava i suoi 50 anni, a cui non mancava più molto. "Dicono che oggi le donne di 50 anni siano come le trentenni di qualche decennio fa...". Si consolava così, immaginando il giorno  in cui avrebbe spento quelle simpatiche candeline raffiguranti i numeri 5 e 0 (ma forse i suoi parenti e amici le avrebbero fatto trovare una torta gigante con cinquanta candeline da spegnere una ad una!) e intanto proseguiva la salita, progettando di costruirsi, nei suoi cinquant'anni, una seconda giovinezza con l’aiuto di estetiste, diete, sport e attività di vario genere, per tenere allenati mente e corpo e trovare nuovi stimoli!
In compagnia di questi pensieri costruttivi superò la sesta scalinata! Olga era ormai giunta alla settima rampa di scale, che nei suoi pensieri rappresentava il suo settimo decennio di vita, tra i 60 e i 70 anni: a questo punto il peso del suo shopping stava davvero divenendo un fardello. Le belle cose che aveva gioiosamente acquistato le apparivano meno esaltanti ora che arrancava su quei perfidi gradini. Tutto stava un po’ perdendo il suo fascino: la città, le auto, le persone che vedeva guardando in basso dalla finestra di mezza scala, ormai si erano fatte piccolissime e la lasciavano quasi indifferente. Olga era ormai concentrata su sé stessa, sul suo respiro, su come andare avanti senza cedere, e si rese conto che era giunto il momento di rallentare, di riposare un po’ per riprendere fiato. La salita era ancora abbastanza lunga, i gradini che l'attendevano erano meno numerosi di quelli già saliti, ma pur sempre tanti! Con timore ma anche speranza guardava in alto nella spirale dei piani che restavano da salire. A quel punto Olga ripensò al pianto del neonato del primo piano, e immaginando nella sua settima decade di vita i suoi figli ormai adulti, si augurò di poter di nuovo tenere un bimbo tra le braccia, ripromettendosi di diventare la più affettuosa delle nonne se i suoi figli le avessero fatto questo immenso regalo un giorno. Poi, sempre immersa nei suoi immaginari 60 anni, pensò alla fine del suo percorso lavorativo, un traguardo anelato e temuto al tempo stesso: si vedeva lasciare il lavoro dopo la sua festa di pensionamento, salutando i colleghi con gli occhi lucidi. Si riprometteva di tenersi attiva e non deprimersi, di affrontare la pensione come avevano fatto i suoi zii e i suoi vicini di casa, con mille nuovi interessi! 
Così, lentamente e dolcemente, la settima scalinata e la settima decade di vita passarono. Dovette riposare un po’, appoggiando a terra le borse. Mentre riprendeva fiato per affrontare l'ottava rampa di scale, all'improvviso sentì una nuova ondata di sentimenti scaturirle dentro, una cosa che lei non si aspettava! Percepì euforia, gioia, terrore e inquietudine che poi fondendosi insieme si tramutarono finalmente in una dolce serenità. Ora niente le faceva più paura: era quasi arrivata al traguardo, si sentiva come un'anziana regina comodamennte seduta sul suo trono, ed acquisì la certezza che il suo ottavo decennio di vita, i suoi settanta anni, sarebbero stati meravigliosi nonostante le rughe, l'artrosi e le probabili medicine da prendere ogni giorno! Avrebbe dispensato amore e consigli ai suoi figli e nipoti, avrebbe trascorso tanto tempo con il marito a rilassarsi ascoltando musica, guardando un film o facendo tranquille passeggiate. Avrebbe letto libri e cucinato manicaretti. Ormai dalla finestra del pianerottolo la visuale era davvero ampia: l’altezza superava gran parte dei palazzi intorno e spaziava oltre la periferia, fino alle verdi colline, dietro le quali vi era la pianura che portava al mare. Il mare della serenità in cui nuotavano tutti i ricordi di una ormai lunga vita! Fu così che anche l'ottavo piano passò! Olga si sentiva in pace come non mai mentre rimirava quel fatidico nono e ultimo piano, che non le faceva più paura, perché ormai fatica e fiatone erano sublimati in una specie di estasi, e lei si sentiva letteralmente alle porte di una nuova vita immaginando il suo ultimo decennio, quello che l’avrebbe condotta dagli ottanta ai novanta anni! Ormai mancava così poco, così pochi gradini! Certamente un po’ si dispiaceva per l'approssimarsi della fine di questo emozionante viaggio, di questa scalata che aveva rappresentato tutta la sua vita, con tutto ciò che aveva già vissuto e la restante metà che le restava da vivere, immaginata così vividamente da sembrare reale, ma la felicità era talmente tanta! Ora il solo problema era rappresentato dai fardelli che si portava dietro. No, le sue braccia non potevano e non volevano più portare quel carico che ormai era diventato inutile e ridicolo! A cosa mai servivano tutti quegli aggeggi che aveva comprato? Il vero senso della vita non sono gli oggetti materiali, ormai Olga aveva tutto chiaro dentro di sé. Nessun rimpianto, nessun rimorso, nessun peso terreno poteva ormai riportarla verso il basso, ora che era giunta così in alto! Sul suo volto apparve il sorriso più bello che mai avesse fatto in vita sua, gettò a terra gli inutili pesi delle borse piene di cianfrusaglie, le sue braccia si tramutarono in ali e percorse l'ultimo piano...volando! All'arrivo l'accolse finalmente il dolce tepore della sua CASA.

Non tutti gli ascensori guasti vengono per nuocere!
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Profilo Autore: poetessalibera  

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