Siamo giunti alla fine: stavo ascoltando un po’ di musica su youtube, poi uno spot pubblicitario mi ha spento: una donna che invitava a cliccare per avere le istruzioni su come caricare un libro digitale su Amazon e campare di rendita. Ma… mica scriverlo io il libro! Macché! È più semplice e più redditizio farlo scrivere ad una I.A., caricarlo su Amazon a nome proprio e campare di rendita. Che libro? Qualsiasi: come esempio mostrava un libro sullo yoga, un libro di racconti… secondo me a questo punto meglio farsi scrivere dalla I.A. una versione più aggiornata e più eccitante della Bibbia e caricarla indicandosi come nuovo Messia.
Buona fortuna a tutti. Per quanto non possa fornirvene prove, io non sono una I.A., tutte le porchesie¹ che ho qui pubblicato le ho scritte con i miei ditini, seguendo il filo illogico dei miei sragionamenti e quella robaccia antiquata e fuori moda che sono i miei sentimenti. Non idoneo a caricarmi su nessuno store, non adatto ad essere venduto né noleggiato da chicchessia. Ciao.
¹: mi piace il termine e, qualora qualcuno nutrisse qualche dubbio, l’ho adottato da tempo per i miei scarabocchi dopo averlo visto usare più volte su altri siti dall'autore fabio b.
23/08/2024
Un insolito regalo di Natale in un paese di mare.
Siamo nell'anno 1956, mio nipote Fausto ha otto anni, vale a dire che è nato il 13 Agosto 1948, in pratica il ragazzo lo abbiamo tirato su io e mia moglie Linda. Mio figlio Augusto lavora nel settore chimico, ha un ruolo di grande responsabilità in un'azienda che produce fibre sintetiche come il Nylon; mia nuora è maestra e insegna in una scuola elementare che dista una quindicina di chilometri dal paese dove viviamo. Linda, mia moglie fin che ha potuto ha lavorato come commessa in un negozio di abbigliamento per bambini, poi date le circostanze avverse della vita ha dovuto licenziarsi e trasferirsi nel paese dove tuttora viviamo. Non si è mai risparmiata, è andata a servizio da famiglie riuscendo a implementare il mio stipendio di operaio. Mio nipote è un bambino che non ha mai preteso nulla, snello e allo stesso tempo fragile, sempre loquace e curioso, ha voglia di imparare e apprende senza sforzo. Con mia moglie lo portiamo ai giardini, al campetto, lo accompagniamo a scuola, fa con la nonna una parte di compiti che gli sono stati assegnati. I nostri finiscono quando mia nuora ritorna dal lavoro. Con Linda ci accorgiamo che il carattere di nostro nipote è cambiato. È sempre stato un bambino esuberante, senza nessuna paura, ora cammina per strada guardandosi spesso intorno con timore, quegli occhi sempre vivaci che annunciano il sorriso ora li vedo impauriti, spenti. Nel pomeriggio, gli chiedo se andiamo a fare un giro in bicicletta. - No nonno, ho da fare i compiti! Di solito ti ci metti più tardi, una parte la fai con la nonna e l'altra a casa con la mamma. Che cosa è successo? Perché sei così triste? - Ho scoperto che sotto l'albero di Natale i doni li mettete voi grandi, non c'è nessun Babbo Natale, nessun Gesù bambino. Non vale! "Hai ragione piccolo mio, non vale, ma tu pensa come sarebbero stati i tuoi Natali se ti avessimo svelato la verità, sarebbe stato un giorno come tutti gli altri e questo non è giusto. Tutti gli anni festeggiamo il tuo compleanno che è ad Agosto, il 25 Dicembre festeggiamo il compleanno di Gesù, non importa se hai scoperto la verità e ne sei rimasto deluso, ti deve importare dell'amore che ricevi dagli altri e accettare il fatto che i doni che trovi sotto l'albero sono stati fatti con il cuore. Ora dimmi, che cosa vorresti trovare sotto l'albero il giorno di Natale?" - La neve nonno. La semplicità di questa richiesta mi fa capire che Fausto ha compreso quello che poco prima gli ho detto. “Perché la neve?” - Perché Gesù è nato al freddo e al gelo. In un momento di tenerezza ho avuto la sconsideratezza di prometterla al mio nipotino per il giorno di Natale.
- Davvero nonno! Grazie. Che bel regalo, il più bello che abbia mai ricevuto.
Siamo nel mese di Novembre, il tempo continua a essere bello, e pure la temperatura non scende mai sotto gli otto gradi, e questo diventa per me un grande problema. Fausto ha una cieca fiducia in me e io penso che lo deluderò proprio il giorno di Natale. Tutte le sere accendo la radio, ascolto le previsioni del tempo, nessuna novità, regna un'alta pressione, le temperature variano dai tre gradi della notte, a dodici, il giorno. La neve è una chimera in un paese di mare. Mi domando, che cavolo di tradizione è quella della neve nel giorno di Natale? Il Vangelo stesso non narra che il giorno di Natale a Betlemme venisse giù la neve. Perché queste riflessioni non le ho fatte prima di promettere? Se avessi riflettuto che a causa del gelo, nel mondo, molte persone vivono di stenti. Desiderare il gelo è egoistico.
E’ l’antivigilia di Natale, la temperatura è scesa di botto, il vento di terra è pungente, il mare lievemente increspato. Le luminarie sono accese, il campanile della chiesa illuminato. La sera Fausto è con noi, mio figlio e mia nuora si sono ritrovati con gli amici a cena. Fausto e Linda sono in sala impegnati a costruire con i Lego un’astronave, io alla finestra. Non può essere vero! Sofficissimi puntini bianchi sospesi in aria che ben presto prendono la forma di fiocchi. “Fausto! Fausto! Vieni a vedere!” - Linda: non gridare così forte, alza il sedere e veni in sala. “No! Non posso! Venite a vedere! Arrivano. - Linda:- cosa c'è da vedere di così importante? “Vieni Fausto, guarda fuori.” La neve! Eccola. Evviva! Grazie nonno! Perché non si ferma a terra? “Devi avere pazienza, ogni cosa a suo tempo. Per fermarsi deve scendere la temperatura, domani mattina è tutto bianco. Ora vai a cambiarti, resto io di guardia.” In pigiama e pantofole mi raggiunge in cucina. Nonno, non vado a letto, resto qua con te. “Facciamo così, ancora una mezzora e poi fili a letto sennò chi la sente la nonna.” In quella mezzora, Fausto vede la neve fermarsi a terra. Esulta come se avesse segnato un goal. “Ora a letto, domani mattina quando ti svegli ti attende un spettacolo.” E’ il mattino della vigilia di Natale, nella notte è scesa un’abbondante nevicata. Fausto è al caldo sotto le coperte, Linda arriva in cucina e rimane attaccata alla finestra a guardare il manto di neve che nasconde l’asfalto e i marciapiedi. “Come facevi a sapere che nevicava?” Mi stampa un bacio sulla guancia. “Preparo la colazione” Ritorna ed esclama: “nevica! Che fiocchi vengono giù, vado a svegliare Fausto, non voglio che si perda questa nevicata.” Entrano in cucina e sono subito davanti ai vetri.
Nonno nevica! Sembrano farfalle questi fiocchi di neve.
A furia di esclamare il suo stupore e la sua contentezza, il fiato appanna i vetri.
Siamo tutti e tre al tavolo a fare colazione, Fausto con la bocca piena: nonni, non ho mai camminato sopra la neve. “Cosa ne dici se andiamo a calpestarla un poco?” Si nonno! Come sono contento! Dai, andiamo. Lidia:- ma che andiamo e andiamo; a prendere un accidente andate voi due! Tu preparati.
Mi vesto per uscire con mio nipote, lei la vedo andare in dispensa, tira fuori un paio di scarponcini, non so da dove siano saltati fuori; li fa calzare a mio nipote. - Sono della tua misura. Lo aiuta a vestirsi. Mi sono imbardato per bene, Fausto indossa il cappottino e si sistema il cappellino sulla testa. “Fausto, usciamo che è l’ora giusta.” - Fermatevi! Tu sei più piccolo di lui. Dalle sue mani come per magia escono due manopole, sono di pelle di pecora e all’interno rivestite interamente di pelo. - Tieni Fausto e tira tanta neve a tuo nonno. Mi raccomando, vieni a casa un po prima del solito perché alle due tuo figlio e tua nuora vengono a prenderlo. Usciamo di casa, Nonno, sembra di camminare sullo zucchero! Guarda nonno, le nostre orme. Raggiungiamo la spiaggia, non l’avevo mai vista così. Le barche sono coperte di quella coltre bianca. Poco più avanti un gruppetto di ragazzini, sono amici di mio nipote. Nonno, io vado. “Vai e divertiti, io sono nei paraggi.” Lo osservo che si allontana e si butta nella mischia. Si tirano l’un l’altro palle di neve. Sono spensierati, felici. Il silenzio è interrotto dalle urla dei ragazzi, il mare è piatto, lo sciabordio assente. Arrivano altri nonni e alcuni genitori con i quali c’è un buon rapporto di amicizia, si comincia a parlare di questo evento inusuale dalle nostre parti e il tempo scorre veloce. Sono già le undici, chiamo mio nipote che subito mi raggiunge, “è l’ora, noi dobbiamo andare.” Ancora cinque minuti, nonno, ti prego! “Li conosco bene i tuoi cinque minuti. Lo sai birbante che poi la colpa è mia.” Mi spiace doverlo far abbandonare la compagnia in questo giorno speciale, “che siano solo cinque i minuti”, grazie nonno. I minuti son diventati quindici e contando i dieci minuti e oltre di strada per tornare a casa, sono in ritardo di una mezzora e so a cosa vado incontro. Non è come pensavo, Lidia chiede subito al nipote se si è divertito, a me non rivolge parola. La vedo che con lo sguardo guarda spesso in direzione dell’orologio appeso alla parete, poi, - è l’ora di un bel bagno, è da stamattina che ho acceso il boiler, acqua calda per tutti e due, prima vai tu Fausto, se hai bisogno chiama la nonna! Fausto ha finito di farsi il bagno e Linda lo avvolge nell’asciugamano. Ora è il mio turno.
Non ho il tempo di entrare in bagno che mio nipote lancia due starnuti di fila e mia moglie con il suo “io lo sapevo” mi fa sentire maledettamente in colpa. A pranzo non sono di buon umore, non era mia intenzione far prendere il raffreddore a mio nipote, spilucco a malapena qualcosa mentre Fausto si rimpinza dei gnocchi al pesto che ha preparato Linda. Nessun starnuto, nessuna goccia al naso, solo il movimento delle mascelle, intervallato dalle sue continue domande, non a tutte so dare la corretta risposta, me la cavo con quello che mi costa più difficile ammettere: “non lo so”. Il malumore lascia ben presto spazio al buon umore nel vedere mio nipote felice e senza conseguenze dal mattino passato al gelo sulla spiaggia. Nel primo pomeriggio mio figlio e mia nuora arrivano a prenderlo, trascorre il pomeriggio della vigilia con i suoi genitori.
Poco dopo che sono usciti, mi sdraio sul divano per la pennichella pomeridiana. Dopo un’ora mi sveglio, Linda è in cucina alle prese con i fornelli per il pranzo di Natale. Scosto le tende della cucina e vedo le nuvole cariche di neve che dai monti si spostano verso il mare. “Linda, esco, vado al bar a fare due chiacchiere, quando ritorno ti racconto le novità. E’ sollevata, quando cucina meno mi ha tra i piedi meglio è. Mio nipote è stato adottato all’età sei mesi, il fatto in paese è stato fonte di tante chiacchiere. Linda, pativa quella situazione e l chi e persone che giudicavano non erano poche. Nonostante gli anni passati ancora oggi c’è chi vuole infierire. E pure in questo giorno di attesa. Lo sento distintamente, quando entro nel bar, “lo chiama nipote ma non è mica il suo, e l’importanza che si dà quando sono assieme, manco gli somiglia.” Osservo chi cerca di fargli interrompere la sua filippica sentendosi in imbarazzo, lo leggo dal linguaggio del corpo. Quando il tizio si accorge della mia presenza è tardi, fa come se niente fosse, cambia argomento, nonostante che, oramai nessuno lo ascolti. Vado al banco e osservo molte persone in imbarazzo per essere state colte ad ascoltare lo sproloquio del tizio. Si avvicina un amico al banco, “hai cambiato colore non farci caso è cattivo”, - non è pericoloso è un imbecille patentato. Vuole sempre avere ragione su tutto e rompe i coglioni parlando a vanvera di tutti quelli che non la pensano come lui a cominciare dai Rumeni che lavorano in cantiere all’ambulante negro che arriva nell’estate. Forse in questo paese c’è bisogno veramente di più persone cattive che imbecilli. Nel sentirmi parlare in quella maniera si avvicina un altro amico che frequenta assiduamente la parrocchia, “cerca di non dire scemenze pure tu, manca la bontà cristiana.” - Lascia perdere che quello è un pezzo del problema, non è certo la soluzione.
Quando si va a confessare, l’idiota, riceve sempre l’assoluzione e si sente in diritto di manifestare apertamente la sua tracotanza. - Andiamo a fare una partita a carte, che è meglio, e spero che non venga d’intorno a commentare il gioco.
Ci mettiamo al tavolino per giocare a carte. Con soddisfazione mi accorgo che il tizio ha preso l’uscita. Mi esce un sospiro e mi godo la pace ritrovata. Dura poco. Saranno passati dieci minuti ed eccolo entrare, si posiziona nel circolo di persone che osservano la partita. Fino a un attimo prima io e il mio compagno stavamo conducendo alla grande. Mi ribolle il sangue a sentire le sue esternazioni, ho perso la concentrazione e non riesco a giocare, il punteggio si capovolge a favore dei nostri avversari. La partita è persa, nell’ultima mano commetto una serie di errori che nemmeno un principiante li fa. Quando sento esclamare, “è più bravo quando gioca con il nipote sbagliato” - mi alzo di scatto dalla sedia e gli rifilo uno schiaffo violento in viso con il rovescio della mano, ha la bocca sanguinante. Le persone d’intorno si dividono in due gruppi e a stento ci portano fuori dal bar per evitare spiacevoli e gravi conseguenze. Gli urlo in faccia che non deve nominare mio nipote, la sua risposta è un sonoro: “vai a farti fottere, hai fatto un figlio senza coglioni.” D’istinto senza pensarci gli tiro un pugno senza guardare dove poteva arrivare, vedo il tizio che si affloscia sul marciapiede, non riesco a fermarmi, lo tiro su tirandogli i capelli, lo incollo al muro, “se ti sento ancora una volta parlare di mio nipote ti cambio i connotati e finisci all’ospedale, capito?” Non ha la forza di rispondere. Lo lascio lì e mi avvio verso casa. Mai avrei pensato di reagire in quel modo. Nel corso degli anni ho imparato a tenere sotto controllo la rabbia, ma quella sera della vigilia ho perso il senno. Sono a metà strada, mi viene incontro a passo svelto Linda, - mi ha raccontato tutto la moglie di Marcello, l’hai messo al suo posto quel farabutto d’una malalingua. “Non sai quanto mi dispiace aver reagito in quella maniera, domani sono sulla bocca di tutti e se lo viene a sapere Fausto dai suoi compagni di classe, mio figlio e mia nuora non me lo perdoneranno mai.” - Andiamo a casa, stai tranquillo hai fatto la cosa giusta. Arriviamo, tolgo il giaccone e mi allungo sulla poltrona senza togliermi gli scarponi, incomincio a tremare e mi scendono le lacrime dagli occhi, “dovevo lasciar perdere, lo sanno tutti che razza di personaggio è.” – Proprio per questa ragione non devi star male, a tutto c’è un limite e quando questo lo si sorpassa, non si sa mai quali sono le conseguenze.
L’albero di Natale e il presepio che mia moglie ha fatto sono lì davanti ai miei occhi, le luci intermittenti e la composizione del lavoro fatto da Linda mi distraggono dai pensieri. La notte non riesco a dormire, quelle parole che il cretino ha pronunciato ora mi fanno più male della reazione che ho avuto d’istinto. Mi rigiro in continuazione, pure Linda non riesce a prendere sonno. - Ascolta mio caro, noi siamo una famiglia e questa parola ha senso solo se la si riempie di contenuti positivi e noi lo abbiamo sempre fatto, tra noi due, con nostro figlio, con sua moglie e con Fausto. Come puoi pensare e crucciarti sul fatto che tuo figlio non capisca la reazione che hai avuto nei confronti di chi ti ha toccato uno degli affetti più cari che hai. Cerca di riposare, domani è una giornata speciale e c’è ancora la neve. Le parole di Linda hanno l’effetto di un toccasana, non chiudo occhio ma mi sento come se mi avessero tolto un peso di dosso.
Il mattino di Natale.
Ci alziamo dal letto e Linda, puntualmente mette su il caffè, scruta fuori dalla finestra, “è ancora tutto bianco”. Mi sento diverso dalla sera prima, quello che mia moglie mi ha detto mi ha dato nuova energia per affrontare nel miglior modo possibile questa giornata di festa. E’ tutto pronto, Lidia la vigilia si è data un gran da fare per preparare il pranzo natalizio mentre io, lasciamo perdere. Rimango in casa, non ho assolutamente voglia di incrociare gli sguardi di chi pure oggi è pronto a giudicare. Alle undici e trenta, il trillo del campanello, vado al citofono ad aprire il portone. Eccoli salire scale, conduce il gruppo Fausto seguito da mia nuora e a ruota mio figlio. Appena entra in casa mi abbraccia e corre da sua nonna, non si toglie la roba di dosso, le parole gli escono a valanga nel descrivere quello che ha trovato sotto l’albero. Mia nuora mi abbraccia affettuosamente e mio figlio come entra mi dà una pacca sulla spalla, “non si parla della natività questa mattina in paese, il protagonista sei tu, l’altro non è che un comprimario messo per una buona volta al suo posto.” - Sono dispiaciuto, mi sento uno schifo, non so che cosa mi è preso. Ho solo fatto un gran pasticcio e mi auguro non abbia conseguenze per mio nipote. Mia nuora si avvicina, mi prende sotto braccio e mi accompagna alla poltrona, lei si siede affianco, “non essere dispiaciuto, hai fatto quello che avrebbero fatto tanti altri nonni.” - Ma, se Fausto viene a sapere dagli altri…, non mi lascia terminare la frase, “non ce né bisogno, sa che è stato adottato, e da un po di tempo, con l’aiuto di un psicologo siamo riusciti a spiegargli che l’unica differenza sta in una parola, biologico, l’altra quella più importante è che lui è nostro figlio.
- Perché non ci avete detto niente? “Per una sola ragione, quella di evitare di parlarne ancora con lui, quando vorrà noi gli daremo tutte le notizie in nostro possesso, per ora deve vivere la vita senza assilli e sentirsi amato per quel che in realtà è, un figlio per noi, un nipote per voi. E’ stata la più bella sorpresa che mai nella mia vita abbia ricevuto. Sono felice che mio figlio e mia nuora abbiano raggiunto questo grado di maturità nell’affrontare i problemi della vita.
Fausto è in cucina con Linda e mio figlio, lo sento che reclama l’apertura dei pacchi che sono sotto l’albero, “quando apriamo i regali?”
- Gli urlo, quando vuoi! Si precipita in sala seguito da Linda e suo padre che non vogliono perdersi l’apertura dei pacchi. “Qual’è il mio, nonno? - Il pacchetto più piccolo che c’è. Non batte ciglio, prende tra le mani il pacchetto ben confezionato da Linda, lo apre, un biglietto con su scritto: corri in solaio. “Vieni papà, andiamo a vedere cosa c’è. Salgono le scale, aprono la porticina del solaio. “Evviva la bici nuova, grandi i miei nonni!” Mi sporgo dal vano scala, - peccato che non puoi usarla ora, volevi la neve, sei stato accontentato, appena si scioglie, prova subito la bicicletta e quando vuoi farti una pedalata io sono qui. La bici quando rientrate portatela con voi, a beneficio di mia nuora che ne avrebbe fatto a meno, - in solaio occupa spazio. Quando Linda e mia nuora ci chiamano, andiamo a tavola. E’ per noi sempre un momento particolare quando pranziamo assieme, lo viviamo sempre con la stessa intensità, condividiamo un sorriso, raccontiamo quel che di bello ci è capitato durante la settimana e lasciamo alle cose storte il loro tempo per farsi da parte. Non un cenno di quel che è successo nella vigilia. Fausto, con la bocca piena è continuamente a chiedere quando la neve si scioglierà, in questa giornata non posso rispondergli, non lo so, poco prima alla radio ho ascoltato le previsioni del tempo e in tutta la Liguria da domani torna a splendere il sole. “Ragazzo mio preparati, domani c’è il sole che fa sparire la neve.” - Ne sei sicuro nonno? “Sicurissimo” – Come fai a saperlo? “Segreto nipote mio.” Linda, - nessun segreto Fausto, tuo nonno ha sentito le previsioni alla radio.” - Allora non sei stato tu a regalarmi la neve. “Vero, io e la nonna ti abbiamo regalato la bici, ormai quella che avevi ti stava stretta, la neve che hai chiesto è il corso della natura che regola il tempo che l’ha mandata. Nessun prodigio, in questo caso diciamolo pure: una bella patta di culo. Ride come un matto e contagia tutti noi che come allocchi gli andiamo dietro. Nel tardo pomeriggio, fanno ritorno alla loro casa, io e Linda ne approfittiamo per fare una passeggiata in paese.
Linda mi si raccomanda che non devo far caso agli sguardi, - facciamo sì che questa giornata si concluda come è iniziata, promesso? “ Stanne certa, prometto.” Incontriamo poche persone in giro a quell’ora, e tutti quelli che salutiamo si fermano senza secondi fini a parlare, si percepisce dal tono della voce, dalla disponibilità di ascoltare, altri ci invitano a prendere un caffè con loro, ne ho voglia e pure Linda di passare un poco di tempo in compagnia ma l’idea stessa di entrare nel bar dove il giorno prima mi sono azzuffato mi ripugna. E’ linda a rompere gli indugi, “prendi il toro per le corna ed entriamo.” - Va bene, andiamo a prenderci questo caffè in buona compagnia.
La sera a casa seduti in cucina spilucchiamo gli avanzi del pranzo, mentre parliamo il volto di Linda s’illumina quando l’argomento è quello del nostro nipote, “un bambino brillante, cresciuto bene, e poi già sapeva che è stato adottato e si è sempre comportato come se niente fosse, è sempre affettuoso e pronto a giocare con noi, è proprio vero che lassù c’è qualcuno che pensa a mettere le cose a posto.” - Le cose a posto le hanno messe i suoi genitori, parlandogli e cosa ancora più importante essersi confrontati con chi sa come affrontare i problemi. Vedi, i miei “non lo so”, quando mi pongono domande alle quali non ho risposta sono sempre occasioni per imparare qualcosa di nuovo, non mi sento in imbarazzo ad ammettere che ignoro molte cose, l’importanza del comprendere avviene sempre dopo, mai prima. Chi si crede di essere nato imparato e ha la soluzione pronta per ogni problema è una persona della quale occorre diffidare. Mia cara, una bella giornata ma faticosa, io vado a letto, domani mi alzo presto, vado a sistemare i palamiti, almeno sono concentrato su qualcosa di utile. In sogno mi ritrovo in mezzo al mare con il mio gozzo, d’intorno una vastità di pesci bianchi, non ne avevo mai visto, mi parlavano in un linguaggio che non riesco a capire, poi una luce intensa mi abbaglia, è il faro di una pilotina della guardia costiera, si accostano e un marinaio sale sul mio gozzo, - tutto a posto? Cosa ci fa nel mezzo del mare a quest’ora, guardi sulla riva c’è sua moglie preoccupata che l’aspetta. Mi desto dal sogno, mia moglie è lì vicino a me, dorme tranquilla, mi alzo, vado in cucina a bere un bicchiere d’acqua e ritorno a letto tentando inutilmente di addormentarmi. Erano successe in una settimana una quantità tale di avvenimenti che a volte non succedono nel corso di un anno. La promessa, la neve, la scazzottata, l’adozione, devo trovare il modo di mettere fine a questi pensieri e ritornare al razionale della mia quotidianità. Non so se ci riuscirò.
Che senso dare al sogno, i pesci che parlano in un linguaggio che non capisco, chissà cosa avevano da dirmi.
Voglio saperlo ma ora non è il momento di pensare e io non sono in condizione di recepire i miei pensieri. Se riuscissi a riposare un poco sono sicuro che domani mattina troverei la risposta. La mia mente è in un groviglio di dubbi e domande. E al mattino dopo una notte insonne trovo nella mia mente la risposta o meglio, quello che il mio subconscio mi suggeriva. “Affronta a testa alta la giornata e quelle a seguire senza rammarico per quel che è stato, da parte di chi ti vuol bene è già dimenticato.” Bastò questo pensiero colmo di positività a cambiare il mio umore, e il corso degli eventi. Niente palamiti, passeggio sulla riva del mare, la neve si è sciolta e le impronte sulla sabbia bagnata sono profonde, attendo l’ora in cui mia nuora accompagna in chiesa mio nipote. Entro in Chiesa, era da tempo che non ci mettevo piede dentro, mi siedo nella panca vicino a Fausto, mi guarda come se avesse visto un fantasma, e ne ha ragione, non mi ha mai visto in Chiesa. Rimango seduto vicino a lui, non ascolto il prete e non mi alzo dalla panca nemmeno quando l’invito gestuale del prete è evidente, ho solo voglia che mi vedano vicino a mio nipote, come quando siamo fuori, uniti, complici, contenti. E’ probabile che i pettegoli tengano le loro lingue a freno, la lezione impartita a uno di questi spero sia servita da monito a chi specula anche con le parole sulle fortune o le disgrazie degli altri.
in certi frammenti, comprendi che ti verranno incontro
e quello che non han potuto fare prima, lo faranno dopo
difendendoti a spada tratta, da chi manca di rispetto
Li vedi che indossano altri vestiti
Con indulgenza applicano leggi
Firmando su un taccuino prendono nota di tutti i mali fatti
pochi saranno risparmiati, il loro giudizio posa le fondamenta
sugli esseri intorno a te, che mentre non credono, qualcosa di sbalorditivo accade
Il timore li assalirà e nulla avranno, a cui aggrapparsi, senza scialuppe
persi nel mare più profondo, che il cosmo vede, ma non la terra
troppo lontani per avvistarla. Presenti e pazienti si mostrano
nel sorriso che avevano perduto quando la vita se li portava
nei sogni, sognavano, abbracciandoli
nei frastuoni dei giorni. Perlustrano zone e li confondono
col giorno, che profuma di pane, appena sfornato
fresco e buono guardato con gli occhi canterini
nel finire di serate, felicemente, addormentate
Quando si è in vita non sempre si riesce ad essere come si dovrebbe, con chi ci sta intorno, ma dopo si può essere migliori, proteggendo, in ogni momento
Nell'amore degli occhi, un cosmo al passaggio
di un temporale scrolla rami penzolanti
è buio pesto, che avvolge, niente rimane
solo briciole di pane, nel giardino dei sogni
di giorni nel sole che brilla brillando
solamente lui. Ombre nel buio dei cipressi
si dettano al mare ed un tempio per pregare,
risale dal profondo mentre il vento tace
triste, tuoni assordanti scuotono rami
infiniti predatori. Nel sipario una danza spenta
nei riflessi riprende le note in giorni cupi
nuvole ammantate di cielo sospeso ed infinite comete
raccolte tra cespugli dimenticati in periferie
del cuore. Cavità sentite
Proprio nel fluire delle notti, scorrono pensieri più vivi
muovere pareti sottili, avverti, un turbamento
è indispensabile chiedersi cos'è
che ti spinge a non sentire il bisogno
per mesi, anni, di cercare
Vorresti che capisse chi si respinge
accettando di buon grado questa decisione
senza insistere, se insiste, costringe a far dire cose
metà vere e metà false
rimproverandosi, d'avere insistito
La cosa che fa malissimo
è non voler capire. Dietro ad una decisione
ci sono motivi profondi, dimensioni lontane
dalle sue, capirsi non potranno, troppa diversità di vedute
per venirsi incontro. Agisce nelle pieghe del mistero
e cammina con lui, rimanendo soffocata
tra le spire buie che l'avvolgono irrigidendosi
ad un vento impetuoso, costruendo dighe
dove l'acqua non si muove
ma scopre rifugi accampati sulle cime
di montagne protettive
Mi piace ogni anno rinnovare la tradizione del Capodanno, e rendere con tutto il creato il grazie, che per un anno intero ho tenuto nascosto in fondo al cuore!! quest’anno in modo particolare, chiedo che rinforzi pazienza e umiltà, per sopportare le infinite sofferenze recate da questa pandemia, ci sta costringendo ad una vera vita di penitenza, di insopportabili dolori per le migliaia e migliaia di anime pure che innocentemente, ci hanno e ci stanno lasciando da soli a sconfiggere il nemico invisibile, il più crudele di questo ultimo secolo!
In questo momento dopo aver vissuto a pieno, il Santo Natale, come mi succede ogni volta, apro il cuore con la preghiera di darmi la forza per affrontare il futuro che si affaccia alle porte minaccioso, forza coraggio e buona volontà chiedo se veramente mi vuole suo fedelissimo seminatore di pace e di speranza!! Le mie speranze, stanno un attimo a riflettere, aspettano un po' di serenità prima di riprendere il cammino e impegnarmi, è grave l’amarezza che regna nel mondo intero, e non si vede all’orizzonte nessun segnale di un minimo miglioramento. Occorre mandi un po' della sua pace e gradualmente rinnovi, e riporti sincerità nei cuori, per ricominciare di nuovo, per ripartire con il Nuovo Anno che possa cambiare i rapporti, ritrovandomi fratello di speranza e di pace, e possa gridare dal profondo del cuore quanto è grande l’amore per questa vita!!
Di questa circolare vita
non scorgo via di uscita:
coincidono nascita e morte,
non temo più la sorte.
Un senso a questa cerco,
non ne trovo uno certo.
Il giorno e la notte,
sorrido e sospiro,
cambiando più volte,
sto sempre nel giro
dal primo in cui vivo
all’ultimo respiro.
Il pensiero è quel momento in cui ti metti seduto
su una seggiola e cominci a girovagare con la mente,
magari con un sottofondo gradevole e dolce di una bella melodia musicale.
Possono essere rumori della natura,
possono essere anche le note dolci di un violino,
però tu sei sempre li seduto su quella seggiola a pensare
al mondo come era bello tanti anni fa, senza questa sofferenza e crudeltà, senza malignità delle persone.
Che magari di come sei preso a pensare che ormai nemmeno segui più le note della musica,
perché sei talmente preso del pensiero che ti senti l'universo crollare sulle spalle.
Tanto è solo un piccolo pensiero,
almeno cosi dicono.
Il nostro paese è adagiato in un’ansa di pianura. Nelle mattine d’inverno si alza una foschia leggera che bagna i campi e li copre come un lenzuolo. È una spianata ampia e scura, ti affacci alla porta e vedi un mare di zolle già arate o di erba che cresce. Puoi quasi sentire il rumore di ogni seme che sboccia e buca la terra, è un crepitare di gusci, un mormorare lontano, è il chicco che muore e diventa una vita migliore. A me è accaduto lo stesso miracolo. Ti ho incontrato per caso nell’unico bar del paese, quello davanti alla chiesa, un rifugio accogliente e fumoso nel quale entravo ogni mattina per acquistare un pacchetto di Nazionali senza filtro. Le stesse sigarette di mio padre e di mio nonno, lo stesso vizio tramandato da generazioni. Afferrai quel pacchetto spartano, la lettera “n” in blu sul rettangolo azzurro, la scritta NAZIONALI bene in evidenza. Rassicurante, semplice e senza pretese, un po’ come quel 1958 appena cominciato. Tu andavi di fretta, tra le dita una busta bianca e un biglietto. Quasi ci scontrammo, mi scusai senza alzare lo sguardo dal pavimento. La nostra era un’epoca serena, nemmeno sfiorata dalle guerre che avevano perseguitato le generazioni precedenti. Nati in un periodo storico di ricostruzione e desiderio di futuro, di regole e certezze a illuminarci la strada, eravamo una generazione con la voglia di prendersi tutto ciò che la vita offriva, senza sconti o rinunce. Domenico Modugno cantava Nel blu dipinto di blu e in ogni angolo ne sentivi vibrare la voce. Quelli erano gli anni del boom e delle nascite record, dei giovani scaltri e irripetibili, con l’illusione di non invecchiare, pronti a tutto, pronti a una vita migliore. Era un’Italia ottimista e proiettata verso il futuro. Quattro anni dopo, un 11 ottobre di luna piena, al termine della fiaccolata che concludeva la giornata di apertura del Concilio, Papa Giovanni avrebbe pronunciato le parole che conquistarono il mondo. Tornando a casa troverete i bambini, dategli una carezza e dite: questa è la carezza del Papa. E tutti, nessuno escluso, ci sentimmo sfiorati da quella carezza, da quella mano illuminata dalla luce di una luna gigantesca nel cielo.
Abile sceneggiatore, il destino cominciò a tracciare un disegno, allineò le nostre vite come gli astri durante un’eclissi. Ci incontrammo il giorno dopo nello stesso bar, io tenevo tra le dita il solito pacchetto di sigarette, tu bevevi un caffè. Ti sorrisi, ricambiasti il sorriso.
«Scusa per ieri, quasi ci scontravamo. Andavo di fretta.»
Soffiasti sul caffè.
«Non fa niente.»
Eri una ragazza di appena vent’anni, i capelli tenuti da un cerchietto azzurro e le guance arrossate dal freddo, un vestito lungo a fiori e un cappotto di lana scura. Incontrarsi ogni mattina diventò una piacevole abitudine. Aprivo gli occhi e già aspettavo il momento che ti avrei rivisto, io e il mio pacchetto di Nazionali, tu e la tua tazzina di caffè. Mi lavavo in fretta e mi vestivo, uno schiaffo di dopobarba e un velo di brillantina tra i capelli, passi svelti lungo i vicoli del paese per arrivare prima e rubare qualche attimo in più al nostro incontro. Il destino ha fatto il resto. Non è stato difficile, è bastato lasciarsi andare, abbandonarsi agli eventi, come quando impari a nuotare e cerchi di opporti alla forza dell’acqua, e annaspi bracciate inutili e un gran movimento di mani. Non serve resistere, non serve agitarsi, è sufficiente chiudere gli occhi e galleggiare in un mare di piccoli segnali e occasioni che la vita ti offre. Briciole sparse sul sentiero, tasselli di un mosaico apparentemente caotico che nasconde un disegno già tratteggiato. Una mattina presi al volo il coraggio, accesi una sigaretta e ingoiai la paura.
«Verresti con me al cinema? Stasera danno I soliti ignoti, una commedia di Monicelli con Gassman e Mastroianni. Ci andiamo?»
Il film l’avevo già visto la sera prima, ma te lo chiesi lo stesso, non come semplice pretesto per uscire con te, piuttosto per il desiderio di condividere qualcosa che mi aveva colpito e divertito. Quel film l’avremmo rivisto insieme e avrebbe avuto un altro significato. Fu allora che mi colpì l’intuizione che ogni istante della mia esistenza, ogni attimo, tutto sarebbe stato diverso se diviso con te. Il pensiero mi attraversò il cervello come una pallottola, da una tempia all’altra. Ebbi la netta percezione che la mia vita avrebbe brillato di una luce talmente intensa da offuscare il sole e che noi, uniti, ci saremmo trasformati in un essere invincibile, un eroe mitologico capace di sfidare gli dei. Accettasti l’invito, anche tu cominciavi ad abbandonarti alla corrente di un oceano che avrebbe cullato e sostenuto il nostro destino. Nel buio del cinema allungasti la mano cercando la mia, poi il cuore impazzito e le dita intrecciate in un tocco caldo che da subito sancì il nostro appartenerci. Uscimmo dal cinema e ti baciai, labbra su labbra, la schiena contro un muro di sassi, le mani sui tuoi fianchi e uno spicchio di luna acceso nel cielo.
Tre anni dopo ci sposammo. Fiori gialli in chiesa e tu vestita di bianco. Un prete rugoso suggellò il nostro patto, una promessa sussurrata tra le labbra come chi racconta un segreto. Pochi soldi e tante speranze. Io lavoravo in cascina con la mia famiglia, foraggiavo gli animali e pulivo le stalle. Imparai a conoscere i ritmi della natura e l’orologio del tempo, ad alzarmi presto e a vivere nei campi con le scarpe bagnate di rugiada e la terra sotto le unghie. Anni di passione e coraggio, prendemmo in affitto un piccolo appartamento vicino alla stazione, una casa dai muri azzurri, una camera, un bagno e una cucina. Il nostro paradiso in terra. Attraversammo uniti l’epoca della ribellione e della musica punk, le prime radio indipendenti, il mito dell’America e dell’amore libero. Arrivarono gli anni feroci della contestazione e della lotta contro il potere, cortei e manganelli, giovinastri con l’eskimo che spacciavano ideologie all’ingrosso. Tutte voci che a noi giungevano in ritardo e in sordina, attutite dal silenzio dei campi e dai filari di pioppi che delimitavano la pianura. Quanta vita vissuta, giorni di luce e occasioni come semi gettati da un contadino fiducioso, sperando che attecchiscano nel terreno di un domani pieno di aspettative. Tu lavoravi come maestra elementare. Qualche supplenza e interminabili viaggi in treno. Partivi presto la mattina e rientravi a sera inoltrata, tra i capelli portavi l’odore di vagoni polverosi e solitudine. Ti abbracciavo, mi stringevi. Orgogliosa della tua professione, del tuo versare nozioni goccia su goccia a bagnare la lingua assetata di un gruppo di ragazzini vivaci. Avresti dato la vita per loro. Insegnare era la tua vocazione, da bambina mettevi le bambole sedute davanti a un foglio bianco e ripetevi una serie interminabile di tabelline. Ma la lezione più importante la insegnasti a me, io divenni l’allievo migliore, il tuo grande successo. Da te imparai che l’amore è un dare senza stancarsi, accettando i difetti e amando anche quelli. Col tempo compresi il significato di due parole che mai avrei immaginato sinonimi dell’amore. Pazienza e resistenza. La pazienza di accogliere i limiti cercando di superarli, la resistenza del combattente pronto a spargere il sangue per difendere la propria patria, in nome di un ideale altissimo. Da te imparai che l’amore è il miracolo più grande, un dare per ricevere molto di più, un dividere apparente che in realtà moltiplica la gioia. Strana banca quella dei sentimenti. Non ammette speculazioni o giochetti astuti, non accetta il risparmio, ma premia lo spreco e il dare folle di chi non si aspetta nulla in cambio. Tu la mia terra generosa, la mia radice e la mia linfa. Mi hai insegnato a tenere la porta spalancata e io duro a capirlo, cervello da contadino pragmatico, cinico e irriverente, malfidente e sfiduciato. Con te ho imparato a non fare baratti e a non cercare l’interesse personale. Con te ho imparato ad amare e a essere amato. Non è stato difficile, è bastato guardarti negli occhi e prenderti come esempio, è bastato restituire una minima parte di ciò che quotidianamente mi donavi.
Il tempo è un cavallo al galoppo, passarono i mesi e gli anni. Poi arrivò quella tosse leggera ogni giorno più persistente e fastidiosa, la prima radiografia e un’ombra inquietante sulla lastra grigia. Lunghi viaggi in città, accertamenti e visite in ospedale, un medico sudato come un’oliva che non riusciva a trovare le parole giuste per dirmi cosa covavo nel petto. Adenocarcinoma al polmone destro, era quello il nome del mostro che mi spezzava il fiato e pesava sul torace. Dopo anni di mani fortunate, scoprimmo insieme la carta nera che il destino aveva girato sul tavolo. Dalle nostre parti si racconta che la morte arrivi preceduta da un suono, un particolare sibilo simile a un oboe notturno che soffia alla luna. Canta l’infinito e quando lo senti è il momento di andare, di lasciare ogni cosa. E non hai altri futuri, e il presente si muta in passato. Sarebbe bello che qualcuno ti avvisasse prima, potresti chiudere i conti aperti, eliminare gli equivoci, chiedere scusa per l’ultima volta. Potresti abbracciare chi non vedrai più, toccare, annusare, asciugare le lacrime di chi ami e ingoiare il presente fino all’ultima briciola perché dopo non potrai più farlo e perderai le mani, le gambe, gli occhi e le orecchie. Perderai tutto, perderai la vita.
Richiudo gli occhi, sono stanco. Da dietro le palpebre intuisco le ombre, passi veloci in corridoio e la voce di un medico che si avvicina al letto per cercare di capire quanto tempo mi resta.
«Come sta?»
Domanda di rito, nemmeno ascolta la risposta. La tua mano stringe la mia. Hai giurato di essere pronta a lasciarmi andare, di essere preparata al distacco. Lo hai detto ingoiando saliva e lacrime, ma non si è mai pronti abbastanza. Pensi sempre che capiterà agli altri, che per te sarà soltanto un accadimento accessorio, qualcosa che succede e ti prende di striscio. Poi, quando te ne rendi conto, vorresti fermare il tempo e dire tutto ciò che non hai saputo dire, e fare tutto ciò che non hai saputo fare. Quanti rimorsi nello sguardo, quante parole nell’aria come brutti insetti neri. Non serve ingannarci, lo sappiamo entrambi che sentirai la mia assenza come il negativo maledetto di una presenza che non avrai più accanto a te. E ti domanderai il significato di tutto quell’improvviso dolore, di tutte quelle persone che verranno a trovarti solo per chiedere se hai bisogno di qualcosa. Gli amici vorranno prendersi cura di te, non glielo permetterai perché sei una donna forte che guarda in faccia la sfortuna. Non ci sarò, e penserai che nulla ha avuto senso, a parte l’esserci amati come bambini, con la purezza di una sorgente e il calore di un incendio. La vita ci ha donati l’uno all’altro, quella stessa vita pronta a separarci con la precisione di un bisturi che taglia un arto o di un colpo di vento che spegne una candela.
Stringimi la mano, le gambe pesano come pietre sotto il lenzuolo, il respiro stenta a uscire, è un cane affamato che raspa tra le costole. Immagino le mie guance scavate, il naso affilato e la fronte lucida. Ritornerò alla terra, madre della mia giovinezza, mio lavoro, mio pane. Sarò zolla arata, seme che muore e diventa radice. Stringimi la mano, resta con me ora che è arrivata la fine e l’oboe notturno sta intonando la sua canzone. La sento lontana, è una nenia antica che culla il pensiero, è il suono della tua voce che mi accompagna. È il tempo che finisce la sua corsa, il mio tempo con te, il nostro miracolo.