Ma è anche vero che la tua coscienza quando sogna si comporta come un attore
e in quella notte dovrai essere buono o cattivo,coraggioso o vigliacco.
Dovrai vedere quello che non volevi,avere e perdere tutto.
Per non parlare dei sogni dimenticati,quelli in cui sai che è successo qualcosa di epico ma non te lo ricordi.Si,ti passa un brivido mentre sei davanti allo specchio o ti allacci le scarpe ma è solo un bisbiglio che si porta via il vento.
Questo però è un racconto masterizzato cioè scritto per essere sognato,poiche solo con il sogno (e quindi distaccato dalla propria vita reale) puoi entrare nelle emozioni e nella testa di altre persone.Perchè nella veglia la ragione,per il tuo bene,ti impedisce di allontanarti dai confini del tuo conosciuto.
IL SOGNO
Dopo 60 km di autobus erano arrivati.
Una suora e un bambino si tenevano per mano passeggiando tra le giostre,come fossero madre e figlio,e in effetti lo sembravano davvero perchè Lei era in borghese con un vestito chiaro.
Quando trovava qualcosa che gli piacesse il piccolo la fermava e alzava il braccio,lei faceva il biglietto e lo accompagnava per l'inizio della sua avventura,e come una vera mamma quando svolazzava su quelle macchine con una mano lo salutava e con l'altra si teneva il cuore.
Erano passate le dodici quando si rimisero in cammino.Dopo una curva all'improvviso l'orizzonte fu tutto azzurro.Si fermarono.
Lei lo guardò ed esclamò: -Ti presento il mare -.
Lo scriccioletto col costumino partiva e ritornava dalla donna saltando e gridando: -E' Bello.E' Bello ! -Per poi riavvicinarsi alle onde che battevano la spiaggia.Quando fu sazio dei suoi giochi gli si sdraiò accanto con la testa sul suo petto e gli occhi nei suoi.Il riso sfrenato si ammorbidì in un sorriso di felicità mai provata.
Puo sembrare strano ma quando si hanno cinque anni un giorno da figlio è la cosa più preziosa che si puo chiedere,e lui le aveva chiesto di essere sua madre non una suora.
Lei aveva capito che quella promessa era da mantenere,anche se le sue braccia nude,le gambe e i capelli accarezzati dal vento le sembravano un salto nel vuoto nel suo spirito la gioa di essere una madre per un giorno le aveva reso più serena quella forzatura.
Ma intanto per far si che non se ne scordasse quella stessa mattina il bimbo si era arrampicato su una sedia sotto la finestra del suo ufficio mimando con l'indice e il medio una camminata scatenandole così una gioiosa risata.Mentre tutti e due ridevano,divisi dal vetro,le due suore nella stanza che le avevano chiesto udienza e impossibilitate a vedere fuori pensavano che forse di lì a poco si sarebbe reso disponibile un posto da Madre Superiora.
E' quasi giorno e il sogno o gli anni sono giunti lontano.
Lo scriccioleto di un tempo teneva per mano sua moglie,la suora un bambino.
La donna aprì le braccia e il piccolo lasciando la mano della Madre Superiora le corse incontro.Anche Lui,dopo un sorriso e una carezza se lo prese in braccio e con la voce rotta dalla commozione gli chiese ad alta voce - Andiamo al Mare ? - mentre la sua Mamma per un giorno stava allontanandosi con le sue lacrime.
-E un girare continuo di sogni mai spenti…un intrigo di piccole foglie aggrappate al davanzale, di giullari che suonano canzoni tra l'erba nel prato infinito-.
"Nel mio giardino è sempre primavera e quando arriva un soffio di gelo, lo riscaldo col fiato dei miei polmoni e poi copro ogni foglia con la maglia di seta azzurra che mi hai regalato l'anno scorso. Come la seta azzurra del mare, quella che indossi scorgendo la spuma di ogni pensiero
intagliando piccoli intarsi nel respiro senza freno che ondeggia al tuo fianco sereno. Nel tuo giardino è tutto spoglio, come nell'inverno del polo o nelle gelide pianure lontane di Nettuno, il cuore è bruno e neri sono gli occhi, chiusi e confusi nelle notti infinite".
-Perché non mi raggiungi laddove perdiamo ogni volta il biglietto senza prima sapere se il viaggio era il primo del giorno o l'ultimo della sera? Ho sbagliato fermata e il rosso si è spento…tutto intorno nessuno mi ha indicato un pertugio, nessuno ha scavato nel pavimento dell'illusione. Tutto è accaduto nel silenzio assoluto...e nessun ranocchio ho incontrato sotto la siepe del bosso-.
"E il principe del paradosso, il colosso smargiasso che hai conosciuto, che fiore ti ha mostrato? O era un frutto tropicale? Cos’è il giglio se non lo scandaglio dell'anima vuota? Siamo essiccati alle pareti delle arterie che portano sangue al cuore, nell'altra faccia dell'amore, scura e invisibile come quella della luna. Ti prego fai entrare la luce, apri le finestre all'ultimo sole del giorno".
-Non c’era un principe e nemmeno un principio, cercavo solo una favola che lenisse il dolore, cui credere a più non posso-.
"La favola della primavera perenne? Lo so, non esiste, sarà bella da raccontare ogni notte prima di andare a dormire nel tuo sogno da fata maldestra, ma è falsa.Ma tu se vuoi puoi tenermi per mano mentre cerco di aprire le imposte polverose del primo piano così puoi vedere il mio doppio e la metà dei miei inganni"
-Ho bisogno di credere allo stesso tramonto, coltivare ancora fiori d'amore ..di quel vento maldestro che occupa spesso il deserto ..se hai voglia invoca per me quella danza…la quadriglia intrecciata di mani ...perché senza sovrani, saremo io e te fuoco e regina .. tu mago e se vuoi, io fatina-.

Ciao, mio piccolo amore,
com'eri bella quel giorno che ti ho conosciuta.
Scusami ancora se quel giorno, per nascondere la mia timidezza,
sorridevo e restavo li fermo, ad ammirare la tua bellezza,
perdendomi nei tuoi occhi colore del mare.
Mentre parlavi, gesticolavi con le mani,
facendo si che s’incontrassero con le mie,
allontanando quella distanza che c’era tra noi,
mentre i tuoi lunghi capelli biondi ondeggiavano,
come il grano mosso dal vento, prima di essere mietuto
e una lieve brezza disperdeva
il tuo profumo di freschezza d’acerba ragazzina.
Sì, mio giovane primo amore.
Tu sei entrata nella mia vita,
strappandomi il cuore dalle radici,
facendomi innamorare follemente di te.
L’aria oggi profuma di te, nei mie ricordi
e la mia mente ti sta pensando, mio giovane innocente amore,
un amore fatto dai sogni di due ragazzini
che pensavano di vivere insieme, per l’eternità.
Solo questo ora è rimasto di te, giovane eroe, solo un sogno e un breve attimo di vita volato via, che nessun libro racconterà mai. La storia della collina dei lunghi fucili, la storia di un'esistenza che non avrebbe voluto morire.
"...Il cancello rimase aperto nei giorni che seguirono, confusi i fili d'erba restavano immobili, che nemmeno la brezza del mattino osava disincantarli.
Terence prese la torcia come ad illuminarsi il cammino, quello che non sapeva percorrere, rotto dai rumori di una parentela che non gli apparteneva.
Con le mani rallentate da un sospetto, si piegò a baciare quel petalo di rosa, così come chiamava la sua fronte.
Marta, le disse, ti aspetto stasera, lontano dalla luce del sole, dopo il crepuscolo i nostri sogni prendono parte del mondo fuori di noi, ti aspetto quando il vento
educato della sera scalderà le nostre cose.
Ho da togliere le mie ombre che si muovono diverse ma che ti appartengono.
Non percorrere il campo, passa al di là del fiume, là tra i ciottoli bianchi e piatti e non farti male; prendi con te la sciarpa e copriti i capelli.
Terrò la lampada accesa accanto ai gerani che tu portasti quel giorno.
Sai, sono fioriti e incredibilmente profumano due volte, di loro e del colore.
Lei si voltò come sapeva già fare, come il sole che impiega il tempo a spostare le ombre di qualcosa sul muro.
L'amava già mentre vide che andava al passo soave sulla ghiaia, come il rumore dei coriandoli che piano toccano il suolo, uno dopo l'altro, uno dopo l'altro.
L'aspettò nei tempi e nei silenzi, nei crepuscoli e nelle mute aurore; l'aspettò sempre, aspettò tutto di lei, anche quella riposta via, quei pezzi che aveva coi gesti di un bambino colto e messo nei barattoli di vetro giallo sul camino insieme ai petali di viole e gelsomino bianco.
Suonavano ancora i rintocchi delle ore di quella vecchia campana di campagna e Terence leggeva poesie, aspettava e leggeva.
Quel cancello, piccolo e arruginito, nessuno più lo aprì ma rimase aperto, sempre...".
Non so come, portai ora lo sguardo su, in cima alla gru che sovrastava il fabbricato; il signor Ricardo era lì, dritto in piedi all'apice della gru; portò la bottiglia del té alla bocca, e si lasciò scivolare nel vuoto.
Ho lavorato successivamente, per almeno cinquantadue anni ai terminali petroliferi; ero solo un cuoco, però avevo le mie soddisfazioni nel sentire i tecnici, gli ingegneri, gli operai che mi facevano i complimenti per la cucina. Trascorso questo tempo, sentii l'esigenza di riavvicinarmi al mio paesino. Avvertivo finalmente e nuovamente l'odore dei campi d'orzo, di grano, della terra bagnata quando iniziava a piovere; l'odore dell'erba bagnata e dell'erba appena tagliata dalla primavera in poi; uscivo appositamente fuori, in strada, durante le piogge, per vedere le lumache uscire, scivolare lentamente sui fili d'erba; quell'odore di petrolio ci mise un po' per andar via dai miei abiti. Girando una mattina...era davvero molto presto, saranno state anche le...5,00; si, ma d'estate sapete, le 5,00 insomma...è giorno, incrociai il nuovo Viale, costruito a dire il vero da alcuni anni; ora...proprio nuovo...non potrei dirlo; nuovo per me, ecco, questo si; per me era nuovo quel Viale. Mi fermai all'inizio dello stesso. Lessi il nome del Viale: Viale San Ricardo. Domandai subito, alla prima persona che ebbi la fortuna di incontrare: "E' una Via nuova questa vero Signora?"; era la proprietaria del negozio di verdure, che decenni addietro era solo un buzzico di chiosco che quasi neanche si notava...e che non era lì di certo, in quel Viale intendo, che neanche esisteva. La signora mi sorrise e chiese: "quanto è che manca da qui signor...." "Zenti", risposi: "Alessandro Zenti"; "ma lei è il figlio di Zenti...."; "il trattore" conclusi io; "si, certo; Zenti-seguitò la fruttivendola- il trattore giù passato il paese; la prima trattoria che incontravi vero?"; "si, io...io, proprio io" come a cercar conferma della mia identità. "ma -seguitai- questo Viale...come mai..dico..come mai questo nome? Viale San Ricardo?". "Ma come, non lo sa?"; "è diventato il Santo del paese: San Ricardo...". "Perché? -chiesi con una certa apprensione trattenendo il respiro, ed aspettando la risposta come concessione a riprenderlo. "Due ragazzi....era il....1900....non ricordo....due ragazzi insomma, videro un certo signore, che qui era conosciuto come signor Ricardo...Ah! dicono che era un bravissimo suonatore di tromba, solo sembra nessuno mai lo abbia sentito suonare..."; "si signora...due ragazzi....che hanno fatto?", incalzai nell'ottenere la risposta, ma più che altro per poter riprendere a respirare; "Due ragazzi dicono che lo abbiano visto scendere dalle nuvole, lì, dove è quell'edificio da finire ha capito dove? Con una tromba dorata in mano e che era seguito da una schiera di Angeli che, a loro volta suonavano chi il piffero, chi il ciufolo, chi il flauto, chi la tuba, chi il corno, chi la cetra.". Nell'elencare tutti questi strumenti angelici, la signora delle verdure iniziò a muovere le spalle avanti ed indietro: quasi danzava. "Si, d'accordo signora e poi? che cosa è accaduto?". "Nulla, tutto qua, solo che da quel giorno, il signor Ricardo non si è più visto e, alla base di una gru che era lì per lavori, fu trovata una tromba tutta d'oro". "Ma...cercai timidamente di azzardare io...non sarà stata forse un...sa...i ragazzi....un...barattolo....che magari somigliava ad una tromba...o non so...una bottiglia di tè o di acqua...sa, i ragazzi come sono...." insistetti. "La signora mi fissò, mi girò le spalle ed aprì la saracinesca del negozio oramai divenuto quasi un Supermercato. "Vuole rovinare tutto adesso? E' tornato da chissà dove e...poteva restarsene lì dov'era...". "Come crede che io abbia questo Supermercato? - seguitava la signora - è grazie al Santo....signore mio!"- poi concluse: "lo invoco ogni....sempre lo invoco...sempre! E ora arriva lei?".
Comunque, dato che io, e solo io ho sentito suonare il signor Ricardo, un benedetto pomeriggio d'estate di circa sessanta anni prima, quella stessa notte mi presi il diritto di togliere la scritta sul marmo che riportava il nome del Viale: "Viale San Ricardo", e la sostituii con una stessa di legno, ovvio, improvvisata da me, che riportava: "Viale Ray: musicista" Si, che stia bene o che stia male, il signor Ricardo, sono abbastanza convinto, non voleva essere Santo, ma solo....parlare con qualcuno di musica...tutto qui. Ah si, certo! quel fabbricato...si, è lì:..... quasi un Santuario; Ah! qui non aspettano altro per non finire.
"Exuse me sir", sentì appena a fianco a sé. Girandosi lentamente vide una signora molto anziana che chiedeva con modo cortese il passo. Luca si spostò accennando ad un leggero sorriso. "Avrà capito che sono italiano?" si domandò Luca; "da cosa? dal sorriso?" si rispose; "forse che sono rimasto in piedi...ma qui..si ha l'obbligo di sedersi?". La signora anziana scese alla fermata tra Allerton Road e Penny Lane. Luca la seguì con lo sguardo nello scendere; il bus chiuse le porte e partì nuovamente. Luca si tenne forte al partire del bus, ma seguiva con lo sguardo l'anziana signora: lo avvolse un desiderio che lo lasciò incantato, quasi sbalordito: lo assalì la necessità di seguire quell'anziana signora. Si affrettò a scendere alla fermata successiva; tornò con passo quasi frettoloso verso la fermata precedente e riprese il suo respiro regolare nel vedere la signora che, avendo appena terminato di scambiare due parole con il barbiere, riprendeva il suo passo solitario. La signora entrò nella porta accanto al negozio. Luca raggiunse finalmente il pub dove, la sera precedente, nel servire quelle pinte di birra, aveva conosciuto il suo nuovo amico con il suo steso nome da italiano. Di tanto in tanto anzi, forse con una certa frequenza, volgeva lo sguardo verso la porta d'ingresso nel mentre serviva le sue birre; ma no: Luca no, non si faceva ancora vivo. A notte inoltrata, con quel suo senso di smarrimento che sempre lo accompagnava a fine turno di notte, si avviò verso casa a piedi. Lungo il viale che lo separava dalla sua semplice abitazione, cercò subito di guardare le finestre della sua stanza; ma tutto era buio. Aprì la porta, questa volta lasciandola strusciare sul pavimento, e si avvertì quindi il solito rumore d'attrito. Accese la luce d'ingresso e raggiunse la stanza. Luca non c'era. Dalla luce d'ingresso si poteva notare il letto nella stanza così..come lo aveva lasciato. Lentamente raggiunse la lampadina che pendeva dalla spalliera. Cercò appena così...con noncuranza, un qualche biglietto, una qualche traccia, ma no...nulla. Si sedette sul letto, si sfilò le scarpe, prese tra le mani i suoi calzini ancora umidi dal pomeriggio e pensò all'attenzione che aveva messo nel calzare le scarpe sul ciglio della porta; tenne stretto fra le mani quell'umido. Gli venne in mente il passo solitario dell'anziana signora lì in Penny Lane. Non ci stette a pensar su. Calzò nuovamente le scarpe. Uscì, raggiunse nuovamente Penny Lane, passò il barbiere chiuso ovviamente, dall'ora notturna e solitaria che era, si fermò all'altezza del portone dell'anziana signora ma sul lato opposto della strada. Una finestra al primo piano emanava una fioca luce che gli ricordò: "l'impero della luce" di Magritte. Strinse i calzini che teneva ancora nelle mani, per avvertire ancora più intenso l'umido che, assieme al freddo di quella notte era un forte contrasto con il ricordo del caldo respiro di Luca. Poi pensò: "chissà se DIO condanna l'Amore che ho avuto per Luca, pur conoscendo questo freddo?". Nelle sue orecchie in quel momento sentì la voce dell'anziana signora sul bus: "Exuse me sir".
Un giorno mia figlia mi chiese:
- Mamma non hai paura di compiere i fatidici cinquanta anni?
Le risposi che non ne avevo timore, che mi sentivo pronta ad affrontare qualsiasi cosa mi sarebbe potuta capitare e che questa scadenza sarebbe stata un tassello da aggiungere alla mia vita.
In realtà, poi mi sono scoperta impreparata a ciò che mi sono trovata ad affrontare.
Una delle sensazioni più brutte e devastanti che una persona possa provare è quella di sentirsi impotente e pensare di non avere le armi per affrontare quello che succede.
Anni fa subii un intervento alla schiena e, per un po' di tempo, mi sembrò di poter godere dei benefici di questa operazione. Invece, dopo circa quattro anni ho iniziato a non stare più bene.
Mi dovevano quindi operare di nuovo, per cercare di risolvere almeno in parte la situazione.
Nel periodo d'attesa tra i due interventi che avrei dovuto subire, ho dovuto ricorrere all’utilizzo di un bastone per potermi sostenere, e ancora oggi ne faccio uso. Per me non è stato facile accettare di vedermi, a soli cinquanta anni, costretta a dover ricorrere ad un appoggio per affrontare la quotidianità.
Pensandoci bene, il fatto di dover utilizzare il bastone non è stata la cosa peggiore che mi sia capitata, lo è stato invece rendermi conto di aver difficoltà nello svolgere anche i più piccoli gesti, come prendere dal frigorifero una bottiglia d'acqua.
-Non ti preoccupare, tu dici cosa ti serve e noi ti aiutiamo- era questa la frase ricorrente, che mio marito e i miei figli mi ripetevano spesso...
Quante lacrime ho versato e a volte verso ancora, perché spesso
ho pensato di essere di peso per la mia famiglia!
Stavo male. Non potevo più essere di aiuto nemmeno per fare la spesa e spesso ero costretta a trascorrere molto tempo sdraiata, per far riposare le gambe. Pensavo di dare l'impressione di non voler fare niente, ma non potevo fare altrimenti.
Al lavoro poi, non andava certo meglio.
Mi rendevo conto che mi era diventato impossibile, in conseguenza delle medicine che dovevo assumere, continuare ad essere efficiente come una volta.
Tra le poche colleghe che mi sono state d'aiuto, una in particolare mi ha insegnato con umiltà a non spegnere mai il sorriso e la speranza e a trovare la forza dentro di me.
Non passava una mattina in cui lei vedendomi mi diceva:
-Anna come va? Dai su che ce la farai..
Era lei a mettermi di buonumore la mattina, anche se il dolore era ogni giorno lì dietro l'angolo.
Quel dolore, che ormai faceva e fa parte del mio camminare, del mio muovermi, nello spazio e nel tempo e che sembrava talora perforarmi il cervello..
A volte ho tentato di reagire con un po’ di ironia, mi dicevo che, col bastone, potevo imparare a fare la majorette.
Quando sono stata costretta a rimanere a casa, mi sono sentita travolgere, come da un torrente in piena, dalla consapevolezza di non farcela ad andare avanti in quello stato.
Mi sentivo veramente impotente, al punto che più volte sono stata tentata di non alzarmi la mattina, sapendo ciò che mi aspettava. Capivo che mi stavano mancando la forza e il coraggio di combattere.
Poi, un giorno, come guidata dall'istinto, mi sono affacciata alla finestra e ho guardato in cortile e... non potevo credere ai miei occhi, rivolta verso mio marito gli ho detto:
-C'è mamma, c'è mamma- ho pronunciato queste due parole come in trance.
Mia madre, con i suoi tanti anni e i suoi acciacchi è arrivata all’improvviso a soccorrermi, sapendo del buio che mi aveva avvolta.
E' impossibile descrivere l'esplosione di emozioni che mi hanno travolta, e in quel preciso momento mi sono detta che non potevo arrendermi. Dovevo riprendermi, dovevo riacquistare a tutti i costi la forza per andare avanti.
Ma dopo la sua partenza era tornato di nuovo il buio.
Trascorrevo i giorni, con sempre meno convinzione che si potesse risolvere la situazione, e il dolore fisico si univa inesorabilmente con il dolore dell'anima. Mi sentivo sempre più sola e inutile.
Spesso pensavo a mia sorella.
Entrambe eravamo perse nelle nostre rispettive vite. Pensavo a quanto poco ci sentivamo, alle chiacchiere mancate e alle confidenze non fatte.
Poi un sabato mattina, alle 8,30 suonano alla porta. Ho aperto chiedendomi chi potesse essere a quell'ora e mi sono trovata davanti lei.
- Cosa ci fai qui? - le dissi dopo essermi ripresa dallo stupore.
nelle incombenze domestiche.
Ho pensato subito, che molte persone non hanno questa fortuna: sentirsi amate, anche se i problemi sono sempre lì, sicuramente fa sentire meno soli.
Ho nuovamente pensato che non potevo deludere chi cercava di aiutarmi, e rischiare di rendere vano il loro incoraggiamento a guardare avanti.
Dopo un mese, ho ricevuto la chiamata dall'ospedale.
Ero convinta che, come per magia, subito dopo mi sarei sentita meglio. Invece, nei mesi a seguire, la situazione non cambiò.
Poi un giorno, ho rivisto una donna che incontrai la prima volta, l'anno prima.
Se non mi avessero detto però che era proprio lei non l'avrei riconosciuta. Portava una parrucca ed era gonfia in viso, eppure non sembrava né triste né abbattuta.
Un' amica comune mi ha raccontato la sua storia: da un giorno all'altro aveva scoperto di avere un male incurabile, con una diagnosi terribile.
Ho pensato che, malgrado i miei dolori, potevo solo lontanamente immaginare cosa aveva passato negli ultimi mesi, con il pensiero di avere ormai poco tempo da vivere.
Eppure il suo atteggiamento non era di sconforto. Il suo sguardo sembrava sereno.
Non ho potuto fare a meno di sentirmi una stupida, e di pensare che, per quando avessi potuto soffrire fino a quel momento, avevo comunque le armi per combattere ogni giorno, avevo la possibilità di alzarmi ogni mattina e di affrontare e vivere la mia battaglia.
Questa donna, senza saperlo, mi ha dato una grande lezione di vita.
Ora lei non c'è più, ma fino all'ultimo ha combattuto senza arrendersi.
Grazie a lei sento il grande desiderio di voler vivere questa vita, anche se troppo spesso è come una partita ad alto rischio.
Infatti, nei mesi a seguire, il destino mi ha portato ad un ulteriore ridimensionamento, sia per il lavoro che per la vita quotidiana, costringendomi ad usare la sedia a rotelle.
La prima volta che dovetti usarla, mi sono sentita come una bambina, che deve imparare a fare i primi passi e ho pensato a quando, attiva, correvo di qua e di là: mi sembrava di avere la forza per spostare il mondo, se poi le giornate erano piene d'impegni, mi sentivo davvero bene.
Da subito ho considerato questa “particolare” sedia come una silenziosa amica, poiché ho capito di non avere alternative, dovevo imparare ad affrontare il mondo con lei che avrebbe portato il mio peso ed io il suo.
Non è stato affatto facile, ho voluto e desiderato con tutta me stessa godere ancora del sole e sentire il rumore della pioggia: sperare di poter tornare a camminare ancora per poter essere a stretto contatto con questa terra, della quale sento l'intenso profumo.
Ho chiuso in un cassetto i pensieri negativi e ne ho buttato la chiave!
Pensieri che sono arrivati quando mi sono resa conto di cosa significa dipendere dagli altri, dover utilizzare la pedana del montacarichi, per poter andare in metrò ed essere osservata mentre lentamente – troppo lentamente -- si muove;
Cosa significa avere pazienza in ogni circostanza.
Nel riflettere sulla mia nuova condizione, mi sono soffermata su di un fatto strano: come è cresciuto il livello della mia disabilità, ho acquistato più forza per combatterla e mi sono sentita un vulcano d'idee.
Ho scritto poesie (alcune delle quali pubblicate su “Intimità”); ho partecipato addirittura a dei bandi di concorso per poeti (proprio io che prendevo quattro in italiano!).
Com'è strano il pensare che quando ero fisicamente attiva, i miei pensieri non lo erano, vivevo la quotidianità e tutto finiva lì. Ora, quei pensieri, li trasformo in rima o in prosa.
No!... Non mi sono arresa!! In trepidante e fiduciosa attesa ho seguito le cure imposte dai medici.
Ho pazientato e sopportato il dolore fino a quando - alcuni mesi più tardi - sono riuscita ad alzarmi, utilizzando, da quel momento ad oggi, solo la stampella.
Quel giorno mi sono sentita scoppiare di gioia come se mille fuochi d'artificio esplodessero dentro di me e ad ogni bagliore il mio cuore diventava sempre più brioso e gioioso.
Lo so; sono stata fortunata. Per me il peggio è passato, ma per altri purtroppo, non è così.
Molti sono condannati sulla sedia a rotelle e molti altri riescono a riprendersi, e riescono a reagire... bisogna reagire!!
Nei mesi che ho dovuto usare quella triste sedia, ho capito cosa si prova a dover chiedere sempre aiuto... ma non ci si deve arrendere mai.
Non è stato facile gestire una famiglia da “seduta”, sentirsi spesso di peso, spiegare a tua figlia che non è il caso ti consideri come Wonder Woman solo perché ti sforzi di non lamentarti della tua condizione.
Ho cercato di farle capire quando spesso mi sono sentita stremata ed esasperata, ma ho cercato di tenere tutto dentro di me per non accrescere il dolore e l'apprensione di chi mi stava vicino.
Sono comunque riuscita ad andare avanti. Al di là dell'aiuto fisico avuto dalla mia famiglia, devo dire grazie a quest'affetto intenso e assiduo che ho per me stessa.
La strada per tornare “in forma” è ancora lunga... ma io ce la farò! Per me è stato importante continuare ad amarmi e amare la vita.
Forse le stelle arriveranno a gettarsi sulla terra
come vomitate dal cielo
per scindersi con le nostre esistenze
per placare all’unisono
ogni vortice negativo
che attraversa gli spiriti
mescolandosi in noi
e facendoci eruttare
sotto forma di mille vulcani
nuove lave prive d’ogni male
scindendo incandescenze
che si fonderanno amorevolmente
in acque adoratrici esclusivamente del bene.