Lei era lì.
Non sapevo bene cosa provavo in quel momento,
ma sapevo per certo, che il modo in cui la sfiorai, riempì d'amore
tutto quel vuoto che lei stessa, qualche attimo prima,
mi disse di provare.
Lei era perfetta.
In ogni sguardo,
in ogni movimento,
e soprattutto
nel momento in cui, distesa sul letto, si rannicchiava,
quasi come a chiudersi in una bolla, accessibile solo 
al mio tatto, e al rumore che le mie labbra emettevano
sfiorando il suo corpo.
La cosa che più mi fece ridere fu la sua domanda, appena uscita dalla doccia:
''Ma mi trovi brutta?''
E io, con uno sguardo sorpreso,
la fissai;
non credendo alle sue parole, alle quali, 
forse, non credeva nemmeno lei.
La semplicità e la perfezione risiedono nelle piccole emozioni e,
guardandola mentre si aggiusta la frangia allo specchio, mi rendo conto di come
non serva organizzare la propria vita, cercando di renderla perfetta.
La vita è questa che sto vivendo, e in questo momento è dinanzi ai miei occhi.
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Profilo Autore: Andrea Pagliara  

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- E’ la nostra ultima volta?

-   Si, ho deciso così, non ho più voglia di discuterne.

-   Può darsi, ma è successo lo stesso, una decina di volte. Hai sempre cambiato idea, cosa ti fa pensare che questa volta sarà diverso?

-   Lo sarà credimi, ormai ho superato il limite della sopportazione, non riesco più a guardarmi allo specchio, a sostenere lo sguardo di mio marito e dei ragazzi. Ti amo, lo sai, ma questa è l’ultima volta che c’incontriamo.

-   La speranza è l’ultima a morire e ad essa mi aggrappo con tutte le forze, ma ora voglio ricordare questo incontro come il più felice degli addii. Ho prenotato al solito posto, è ora di raggiungerlo, andiamo con una sola auto?

-   Si andiamo con la mia.

 
Diedi un ultimo sguardo al luogo del nostro incontro: davanti a me c’era la distesa infinita del mare, l’agitarsi delle onde sulla spiaggia, il suono della risacca, il sole di un tiepido mattino di primavera. Immagini felici attraversarono veloci la mente: con quei ricordi, avrei dovuto convivere per chissà quanto tempo ancora. La stanza del motel prenotata distava pochi chilometri, con l’auto d’Ilaria e il suo stile di guida sportivo, bastarono pochi minuti per raggiungerla.

La stanza era la stessa della prima volta, per mia esplicita richiesta: la speranza era che almeno nella memoria, l’inizio e la fine della mia storia con Ilaria potessero confondersi, che il distacco fosse temperato dal ricordo dell’emozione dell’amore che sta per sbocciare. Guardai fuori dalla finestra: davanti agli occhi c’era una distesa di asfalto, auto che sfrecciavano veloci, solo qualche radura di verde in lontananza. Il cielo terso, era l’unica concessione all’ottimismo.

Non riuscivo a liberare il cuore dall’ansia: l’idea che quello fosse l’ultimo incontro, mi toglieva il respiro. Ilaria era seduta sul letto, con lo sguardo fisso nel vuoto:la raggiunsi e l’abbracciai lungamente con dolcezza. Nella stanza regnava il silenzio o forse ero io a non percepire alcun rumore dall’esterno: all’abbraccio seguì un lungo bacio, sembrava che quel giorno potesse durare all’infinito, che l’addio potesse essere rimandato in eterno grazie alla sospensione del tempo. La passione repressa dalla tristezza sbocciò improvvisa: i baci divennero frementi, i vestiti furono sparpagliati per la stanza, con lanci da provetti discoboli. Tornò il vigore perduto, lo stesso che trent’anni prima aveva fatto da spettatore interessato alla nostra prima volta.

-   Andiamo a mangiare fuori a mezzogiorno? C’è un ristorante non lontano da qui.

Le parole d’Ilaria mi sorpresero: sino a quel giorno non avevamo mai pranzato insieme. Il suo primo pensiero, quando il sole culminava, era per la famiglia; il pranzo da preparare per i figli che tornavano da scuola e per il marito. Ilaria era una maestra delle elementari, per incontrarmi doveva chiedere un giorno di permesso a scuola: di sicuro non poteva tornare a casa dopo le quattordici.

  -   Per me va bene, ma cosa racconti a casa? Sinora, nonostante le mie insistenze, non hai mai voluto stare insieme dopo una certa ora.

-   E’ la nostra ultima volta, voglio che sia qualcosa di speciale. A casa inventerò l’ennesima balla, sono e nessuno lo sa meglio di te, una vera specialista nel settore bugie e invenzioni.

-   Paghiamo ora il motel o torniamo qui dopo essere stati al ristorante?

-   No paghiamo dopo: alla fine del pranzo, voglio darti un altro “strappo in Paradiso”.

-   Allora è meglio che ordino il “tiramisu” per dolce: mi servirà.

 
Il ristorante era a un paio di chilometri dal motel: mezzogiorno era passato da poco, eravamo i primi avventori della giornata. Presi la mano d’Ilaria e la fissai negli occhi a lungo: aspettai discutendo del più o del meno che la cameriera ci portasse il menù del giorno. Non avevo alcuna fretta a quel punto: dalla macchina avevo chiamato in ufficio per annunciare che per quel giorno non mi sarei recato al lavoro. Mia moglie, per fortuna, non aveva l’abitudine di chiamarmi al telefono quando non ero a casa. Lo faceva solo in caso di vera urgenza. Volevo godermi sino in fondo la giornata: per le lacrime, i rimpianti, avrei avuto parecchio tempo, dall’indomani. Ordinammo un paio di bistecche con contorno d’insalata per secondo e, ovviamente, il “tiramisù” per dolce.

Dopo pranzo decidemmo di fare una passeggiata mano nella mano, alla luce del sole: un altro dei tanti tabù infranti, di quella giornata.

 
Il battito del cuore era frenetico: non stavo correndo i cento metri, solo passeggiando mano nella mano con Ilaria. Eppure erano già passati più di trent’anni dal nostro primo incontro su un banco di scuola. Forse è meglio parlare di scontro, a giudicare dai toni convulsi della discussione, delle accuse che ci scambiammo. Gli snodi della passione sono strani, come le alchimie del cuore: tra di noi, forse non poteva funzionare, fare gli amanti era l’unica strada che potevamo percorrere insieme. Il litigio, il primo di una lunga serie, invece di allontanarci ci avvicinò: bastarono pochi giorni per capire che le nostre strade stavano per incrociarsi.

Non fu mai vera gloria: tu avevi già qualcuno, anch’io non avevo la totale padronanza del mio tempo. Niente mariti, impegni a lunga scadenza: ma anche a diciotto anni, non è facile dire a chi ti sta accanto “arrivederci e grazie” Allora, almeno era così. Fui il tuo amante anche quando non eri sposata e non lo ero nemmeno io: a ripensarci oggi, mi rendo conto di quanto sono stato idiota, di come mi sono rovinato con le mie stesse mani. Ci siamo presto persi di vista, con la fine della scuola: abitavo in una città diversa dalla tua. Cento chilometri non sono una distanza infinita, ma qualche complicazione possono crearla, a chi deve colmarli per amore. Ciascuno ha seguito la propria rotta, nell’ignoranza di quella dell’altro: il destino, però, quando ci si mette può essere beffardo.

 
Un nuovo incontro, anzi un altro scontro, dieci anni dopo: un banale tamponamento. Ti eri distratta un attimo alla guida della tua auto ed eri finita addosso alla mia: gli spettatori di quell’incidente si staranno ancora chiedendo per quale motivo ridevamo a crepapelle dinanzi alle nostre auto ammaccate. Forse avrei persino pagato di tasca mia, per trovarmi in quella situazione! Era la prima volta che tornavo sul luogo del delitto, nella città in cui ci eravamo incontrati, tanti anni prima. Il primo impulso fu quello di baciarti: eri persino più bella di quanto ricordassi nei miei sogni. Mi trattenni dal farlo, ma non dal telefonarti appena possibile: ti ho solo preceduta di qualche minuto, di questo sono più che certo. L’escalation della passione fu irresistibile: bastarono pochi giorni per recuperare al cuore le emozioni interrotte in un torrido giorno di luglio.

  “Non era destino”, mi hai ripetuto fino allo sfinimento: ogni volta che ti opponevi alla mia richiesta di andare a vivere insieme. I figli, i rispettivi coniugi: tutto ci era contro, ma forse con un po’ più di coraggio, i conti sarebbero potuti tornare. Se così non è stato, però, non è colpa del fato, ma dei rimorsi, dei sensi di colpa che a turno ci hanno fermato.

  I pregi del “tiramisù” non sono immeritati: se dell’ultima volta con te ho un ricordo speciale, è anche per questo. I miei ricordi da quel punto in poi sono sfocati: una delle immagini che ho impresso nella mente è il bicchiere di whisky che sorseggio in tua compagnia. Sei ancora nuda, non sembri avere fretta di tornare a casa. Mi sorridi, mi saluti con la mano: forse avrei potuto intuire cosa sarebbe successo da lì a breve.

  Mi svegliò il trillo del cellulare: a casa c’era qualcuno che era preoccupato della mia assenza ingiustificata. L’orologio segnava le diciannove, la mia scatola cranica era tutto un dolore. Dovetti sforzarmi per fare il punto della situazione: Ilaria era ancora nuda, distesa acconto a me, immobile. La chiamai a voce alta dopo aver chiuso la comunicazione: nessuna risposta. Riprovai più volte, senza nessun risultato. Le diedi uno schiaffo per vedere se reagiva: non mosse un muscolo. Solo allora notai le due lettere sul comodino: una era indirizzata a me.

  I miei sospetti si rivelarono fondati: era una lettera d’addio, non solo a me, ma anche alla vita. Non poteva più sopportare la mia assenza, non aveva il coraggio di cambiare vita: mi chiedeva scusa, per il dolore che mi stava procurando. L’ultima riga l’aveva aggiunta prima di passare a miglior vita: quella giornata, era stata la più bella della sua esistenza. Lo era stata anche per me. Sino a quando non mi aveva versato del sonnifero nel whisky, per poter mettere in atto il suo piano di morte. Forse prima di esalare l’ultimo respiro, mi ha parlato, mi ha baciato. Non potrò mai saperlo.

  Sono trascorsi degli anni da quel giorno: ogni tre maggio, però, torno in quel motel, per ricordarla, per inchinarmi alla sua memoria. La mia vita ha preso un’altra direzione: non solo per il gesto estremo di Ilaria, ma anche per le conseguenze sulla mia vita. Un matrimonio finito da un giorno all’altro, una carriera spezzata sul più bello. La mia menzogna non era sfuggita all’attenzione dell’azienda per cui lavoravo.

Non so dove sia Ilaria in questo momento: se può vedermi, spero che abbia pietà di me, che chieda a chi di dovere un rapido ricongiungimento. Su questa terra senza di lei, nulla è più uguale, nemmeno nella stanza del motel, in cui mi ha dato l’ultimo “strappo verso il Paradiso”.





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Profilo Autore: mybackpages  

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Il piacevole calore delle lenzuola svanì al mattino, quando mi accorsi che il lato di Carol era vuoto. Chiamai il suo nome per tutta la casa, ma nessuno rispose. In giro non vi era nessun biglietto, nessun avviso; forse era uscita a fare compere in paese e aveva deciso di lasciarmi riposare. La porta principale era aperta, ma le chiavi erano state lasciate nella serratura. Abbastanza preoccupato chiusi la porta e andai a cercarla in paese. Quando giunsi davanti alla locanda, all’interno vidi tutte le luci spente.

“Non c’è più nessuno…”. Disse un vecchio passante alle mie spalle.

“Come?”. Chiesi stupito.

“Sono ormai dieci anni che se ne sono andati”. Aggiunse abbassando il berretto sgualcito davanti agli occhi.

“D-dieci anni?”. Alzando lo sguardo vidi le mura trasudare decadenza e l’insegna arrugginita. “Scusi, ma…”. Quando mi voltai di nuovo il vecchio era sparito.

Scosso dal timore appoggiai il viso al vetro della finestra frontale.

“No!”. Di scatto mi allontanai dalla finestra. “Non è possibile…”.

Ovunque vi erano traccie di polvere e ragnatele: sul pavimento, sulle sedie, sui tavoli, sul bancone; perfino le teste di animali e le antiche padelle erano scomparsi sulle mura sbiadite.

Forse ero ancora nel letto e stavo sognando? Sì, non poteva essere altrimenti. Questa supposizione riuscì a ravvivarmi leggermente.

“Quando questo incubo sarà finito, mi sveglierò accanto a lei ad assaporare il profumo di albicocca”. Pensai camminando nervosamente tra le vie del paese.

Quando incominciò a scendere la sera, mi accorsi di aver battuto ogni angolo di Semina. Le poche botteghe erano chiuse per la festa di Ognissanti e tutti gli abitanti sembravano essere rintanati in casa. La pioggia, scendendo spietata dal cielo nero, bagnò il mio corpo a dovere. Le mie gambe e i miei piedi iniziarono a manifestare i primi segni di cedimento. Non mi arresi; restava solamente un ultimo luogo da visitare. “Tentar non nuoce”. Pensai oltrepassando il cancello. 

Camminai alla ricerca della tomba di Piero Padovani: la mia ultima speranza di ritrovarla, dopo di che mi sarei rivolto alle autorità. Passeggiando nel lato sinistro mi fermai davanti ad un grande monumento. L’alto angelo, appena illuminato dalla fioca luce del lumino, depositava rose nel marmo frontale. Nella lapide vidi la fotografia di un uomo dai  tratti somatici famigliari; sì, era lui. Quanto somigliava a Carol. Ciò che vidi appena sotto l’immagine mi fece cadere dritto con le ginocchia al suolo.  

“Ora ricordi?”. La delicata mano toccò la mia spalla. La voce appena accennata aveva il tono melodioso che tanto mi piaceva. Voltandomi con grande fatica la vidi risplendere sotto la pioggia in un lungo vestito bianco.  

“No…”. La mia voce si ridusse ad un sospiro affannoso.

“No! No! No! Dimmi che non è vero!”. Scossi il suo corpo tenendola stretta tra le braccia. Tra le mie lacrime che si confusero con la pioggia, lei non mostrò nessuna emozione. Accarezzando i miei capelli, mise un dito sulle mie labbra e iniziò a baciarmi.

Chiudendo gli occhi vidi un pavimento bianco; la luce riflessa sulle piastrelle era decisamente accecante. Stentai a riconoscerla davanti allo specchio sopra il lavandino: aveva l’aria stanca, i capelli arruffati e il volto terribilmente magro. In silenzio tolse i vestiti e si avvicinò alla vasca. Tremando puntò il piede dentro l’acqua bollente, ma anche quando vi si immerse i brividi non smisero di tormentarla. Lo stupendo colore dei suoi occhi si spense; in un attimo nell’acqua caddero due gocce rosse, poi tre, quattro… la vasca, le pareti, lo specchio, ogni angolo si tinse di rosso.

Quando quella straziante immagine scomparve, mi ritrovai a piangere istericamente davanti alla fotografia della lapide.

“Non piangere Stefano…”. Con la vista appannata la vidi chinarsi accanto a me. “Io ora sono felice… le tue lacrime mi faranno riposare in pace”.

“Portami con te! Non vivo senza di te”. Piansi ai suoi piedi mentre lei si alzò guardando il cielo.

“Non posso, io ora appartengo ad un altro mondo. Quello che abbiamo vissuto, anche se è stata un’illusione, mi ha riempito il cuore. Mi sono bastate le tue carezze, la tua presenza e tutto il tuo amore. Avrai sempre un posto nel mio cuore Stefano, grazie di tutto”.

Confondendosi con la pioggia, la sua figura scomparve accanto all’angelo.

“Carol… Carooool, Carooool… aspetta non te ne andare, non te ne andare…”.

Penso di aver pianto tutte le mie lacrime quella notte. Ora non provo più nessuna emozione; il mondo intorno è morto, non esiste, senza di lei nulla può più esistere. Forse c’è un modo per poter sentire ancora quello stupendo calore. Credo sia l’unica via d’uscita a questa miseria. Sì… eccomi mia Cicetta, vengo da te…         FINE                    Dedicato a tutte le vittime dell'amore 

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Profilo Autore: luke676  

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“Buongiorno…”. Sopra il vassoio che Carol reggeva tra le mani vi erano due tazze di cappuccino e due croissant. Ritornando sotto le coperte si avvicinò alle mie labbra; forse non meritavo tutto questo.

“Sai che parli nel sonno?”. 

“Cosa… cosa ho detto?”.

“Hai detto : “Che stronzi!””.

“Carol…”. Addentai lo squisito croissant alla crema. “Tu… tu sai chi sono gli stronzi, vero?”.

“Si… i tuoi… amici”.

Già, gli “amici”:

“Non ti fai più vedere!”. Ricordai l’espressione delusa di Lino in quel venerdì pomeriggio.

“Non è vero…”. Risposi sorridendo; uno dei miei più grandi difetti è sempre stato quello di non avere mai una risposta pronta.

“Eh, avrà trovato da scopare”. La frase di Tano mi irritò. 

“Allora è una cosa seria!”. Secondo Lino avevo commesso una delle mie più grandi colpe.

Per tutto il resto del pomeriggio quasi non mi considerarono; lasciando il bar, a momenti non ricambiarono il mio saluto.

“Hey! Oggi è halloween!”. La voce di Carol fece svanire il ricordo.

“Com’è halloween a Semiana?”.

“Oh beh, una rottura di palle come in tutte le altre parti del mondo. La maggior parte delle gente va a festeggiare nelle città, solamente in pochi rimangono qui”.

“Chi rimane qui?”. Chiesi curioso.

“Coloro che credono nel Capodanno Celtico”.

Carol spiegò che tutti gli anni un gruppo di persone prendeva parte al rituale di Samhain. Nutrendo interesse e curiosità, la convinsi ad assistervi.

Verso mezzanotte uscimmo di casa; il vento colpì le nostre facce come una gelida lama di rasoio. Poco dopo il cimitero vedemmo un focolare all’orizzonte; Il suo bagliore illuminava la  buia e vasta campagna. Seguendo il fuoco, arrivammo nei pressi di una collinetta e ci appostammo in cima. Seduti sull’erba umida, vedemmo un gruppo di persone avvicinarsi al grande fuoco al centro del campo.

Alcuni uomini erano abbigliati con indumenti femminili, mentre le donne portavano abiti maschili; i giovani e i bambini vestivano vecchi abiti adatti a persone dall’età avanzata. Ognuno teneva in mano una candela dai colori diversi : rossa, nera o bianca. Dopo che il gruppo formò un cerchio intorno al fuoco, una donna versò il contenuto di un calice direttamente sul fuoco. L’odore di incenso riempì l’aria.

Poco distante, una signora anziana accese un altro focolare iniziando a recitare : “Ravviverò il mio fuoco stamattina. Alla presenza dei santi Angeli del cielo…”.

“Cosa sta facendo?”. Chiesi a Carol.

“E’ la benedizione sul fuoco, una formula magica che recitavano le donne Irlandesi mentre accendevano il fuoco nel camino”.

Quando la donna terminò, tutti i presenti accesero la propria candela nel fuoco centrale lasciando cadere nelle fiamme dei biglietti di carta.

“Ecco, ora possiamo anche andarcene. Faranno baldoria fino domattina”. Disse Carol alzandosi da terra.

Infatti, avvicinandosi ad tavolo ricco di cibi e bevande, diedero il via ad una chiassosa festa.

Mano a mano che ci allontanammo, le grida diminuirono d’intensità fino a scomparire del tutto. Restò solamente il piacevole fruscio delle foglie mosse dal vento e il rumore dei nostri passi. Ritornando sull’asfalto strisciammo e battemmo i piedi per togliere il fango dalle suole delle scarpe.

Sulla strada di ritorno, ci imbattemmo in alcuni individui mascherati. Costoro indossavano le maschere più spaventose che mi capitò di vedere : completamente bianche e con cerchi di nero attorno agli occhi, ricordavano dei volti cadaverici con la peggiore espressione di lamento.

I bambini rincorrendosi emettevano grida spaventose; non avevo mai udito niente di simile nemmeno nei miei dischi più estremi. Rientrando in casa provai conforto: le antiche tradizioni mi affascinarono, ma allo stesso tempo provai una leggera inquietudine. Carol non smise mai di sorridere: sembrava divertita e fiera di avermi mostrato le usanze di Semiana. “Vieni…”. Disse prendendomi la mano seduta sul divano del salotto.

“Ma…cosa?”. Le chiesi seguendola verso la camera da letto.

Con mille punti interrogativi in testa, la vidi aprire il primo cassetto del comodino accanto al letto.

“Non ti ho mai fatto leggere questa…”. Reggendo una pila di fogli mi consegnò quello che stava in cima. Senza aggiungere altro si tolse le scarpe sdraiandosi sul letto. Fissandomi con sguardo amorevole, adagiò il cuscino sotto la guancia. Stendendomi accanto a lei iniziai a leggere il contenuto del foglio stropicciato:   

La mia unica amica sei tu, oh dolce e sottile nebbia; tu che silenziosamente avvolgi lunghe risaie e campi bagnati dalla rugiada. Sì, provo conforto osservando la tua bellezza e respirando la tua essenza così leggera e pulita.

Abbracciami, cullami come solo tu sai fare; fammi dimenticare questo mondo contaminato. Fa che io chiuda gli occhi di fronte all'umanità, quale assurda e inguaribile piaga.

Esseri viventi incapaci di valorizzare ogni sentimento, prigionieri in gabbie costruite da loro stessi. Accecati dall'egoismo non hanno rispetto nemmeno per... una lacrima.
Prendimi, sono tua : stringi forte la mia mano e portami via... lontano da qui... oh dolce e sottile nebbia
. "

“L’hai scritta quando…”. Non mi accorsi della lacrima che scese vicino alle mie labbra.

“Sì… mai nessuno l’ha letta”.

Delicatamente si alzò dal letto, coprendo il corpo nudo con il lungo lenzuolo bianco. Dietro la porta finestra osservò la pioggia cadere, una melodia tanto soffice da sembrare eterna.

Mi avvicinai baciandole le morbide spalle nude. Nel riflesso del vetro vidi le sue mani stringere le mie che l’avvolgevano deliziosamente.

“E’ finita”; “Non provo più niente”; “Questa storia mi sta pesando”; ripensando a quelle frasi uscite dalla mia bocca, una lama appuntita attraversò il mio cuore.

“Quante volte mi sono affacciata qui, sperando di rivederti passeggiare. Non so cosa avrei dato per far sì che apparissi giù nella strada e mi salutassi sorridendo”.

“Non dovrai più farlo… ora sono qui… per sempre…”. 
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Profilo Autore: luke676  

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Terminato l’abbondante pranzo, ritornammo in paese. Nei pressi del municipio mi ricordai dell’esistenza di una vecchia casa abbandonata. Innumerevoli furono le volte che proposi a Carol di visitarla. Lei, sensibile e paurosa, rifiutò sempre.

“Ti fa ancora paura?”. Le chiesi fermando la macchina davanti alla decrepita struttura.

“No… andiamo!”. Restai sorpreso a vederla scendere dalla macchina decisa ad esplorare la dimora. Vedendola in difficoltà ad avventurarsi tra le macerie, la aiutai stringendole la mano.

Essendo il paese deserto, nessuna anima viva ci vide entrare nella porta principale. Al piano terra vi erano i resti di una cucina e cocci di vetro sparsi ovunque. Gli altri locali, tutti muniti di un grande camino, erano vuoti. Tenendoci per mano salimmo la scala in legno che conduceva ai piani superiori.

“Sei contento ora che hai finalmente visto la casa di Caterina Medici?”.

“La strega di Broni?”. 

“Esatto, proprio lei. In paese dicono che il suo spirito si aggiri in questi locali”. La voce ferma, decisamente calma. Dove era finita la ragazza terrorizzata dalle storie di fantasmi?

“Mica ti facevano paura certe storie?”.

“Ora non più. Imparando ad affrontare la sofferenza ho saputo domare le mie paure”.

Senza preoccuparsi della polvere, sedette su di un materasso al centro della stanza. Quanto dispiacere provai ad immaginare gli eventi della sua vita a cui non avevo assistito. Dolcemente le accarezzai i capelli; la loro morbidezza mi mancava da troppo tempo. Non appena avvertì il contatto, venne più vicino al mio corpo alla ricerca di calore.

“Mi dicevi che hai tentato di prendere una laurea in giurisprudenza…”. Ruppi l’assordante silenzio.

“Si, ma poi con la locanda ho dovuto lasciare”. Nelle sue parole traspariva l’amarezza di non avere portato a termine lo studio.

“Sei ancora in tempo a riprovarci”.

“No, ora ho tutto ciò di cui ho bisogno”.

Le sue mani fredde accarezzarono il mio viso, ma quando ricambiai l’amorevole gesto trasmisero un piacevole calore.

“Non ti lascerò mai più…”. Sentivo che quella era l’unica promessa sincera di tutta la mia vita.

“Baciami…”. Chiudendo gli occhi mi lasciai trasportare dalle emozioni. Sorridendo ci sdraiammo insieme sul materasso sgualcito, il freddo non ci diede alcun fastidio; in quell’ ambiente erotico e decadente ci abbandonammo ad uno dei nostri più lunghi atti d’amore.

Quando la luce scomparve dietro alle vecchie finestre, Carol si addormentò sul mio petto. Osservando la dolce espressione sul suo viso, rilassai il mio corpo. Un delicato tepore invase i miei sensi e la mia mano smise di accarezzarle la testa.

Svegliandomi, vidi Carol accendere una sigaretta. Quando la luce dell’accendino svanì, cadde nuovamente il buio.

“Che ore saranno?”. Chiesi sedendomi sul materasso.

“Sarà sera ormai… andiamo, qui sta diventando sempre più freddo”. Attivando la torcia del cellulare riuscì leggermente ad illuminare la lunga stanza buia.

“Dove andiamo ora?”.

“A casa mia, ho un appartamento tutto mio. Non abbiamo ancora mangiato, ti preparo una bella cenetta”.

“E tua madre?”.

“Dorme in una delle stanze della locanda, finalmente si è decisa a lasciarmi un po’ di libertà”.

Sempre aiutandoci con la torcia del cellulare lasciammo la casa di Caterina Medici; anche se l’avevamo onorata di tanto d’amore, mi venne il sospetto che le fitte tenebre vollero inghiottirci. All’esterno l’aria sapeva di pulito; una lieve pioggia bagnò i nostri corpi che non smisero mai di abbracciarsi.

Nella rustica cucina dell’appartamento Carol cucinò dei maccheroni con zucchine, pomodorini e ricotta di capra.

“Cicè, anche in cucina sei rimasta bravissima”. Mi complimentai per l’ottima cena.  Lei, arrossendo in viso, si alzò da tavola e mi invitò a visitare la casa.

Rimasi sorpreso a vedere libri ovunque : nel salotto, in camera da letto, in cucina e perfino in bagno. L’antica mobilia della casa aveva come scopo quello di contenere tutti quei volumi. Ad eccezione del televisore, lo stereo e un lettore DVD non vidi altri segni di tecnologia.

Decisamente provati, decidemmo di metterci a letto. Con la sensazione che tutto ciò non fosse vero, mi addormentai di nuovo. 
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Profilo Autore: luke676  

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“Come non puoi?”. Chiese deluso il mio collega Arduini.

“Ho… ho da fare”. Risposi distrattamente togliendomi la divisa. Quello era il momento della giornata che più detestavo; negli spogliatoi si parlava solamente di calcio o di politica.

“Dai, prima di sera siamo a casa!”. L’insistenza di Arduini si fece irritante.

 “E va bene, vengo anch’io”.

Mancavano ancora tre giorni a sabato e l’attesa divenne sempre più snervante. Presi in considerazione di rinunciare, ma ormai non avrebbe avuto senso. Quando arrivò il fatidico giorno decidemmo di  trovarci al parcheggio della fabbrica alle ore 9.00, dopo di che raggiungendo il Ticino e armati di tanta pazienza, avremmo acceso il fuoco. Una grigliata fuori stagione : che idea del cazzo. Prima di uscire di casa salutai mamma come se fosse l’ultima volta. Lei sorrise alla mia sproporzionata dimostrazione d’affetto e mi augurò “buon divertimento”.

Nel gelo mattutino guidai fino all’incrocio che portava alla fabbrica, ma quando scattò il verde misi la freccia e svoltai a sinistra. Percorrendo il lungo viale ritornai giovane; nel cruscotto cercai la famosa cassetta che accompagnò molti viaggi : “Clear Hearths, Grey Flowers” delle Jack Off Jill. Non la trovai; chissà dov’era finita. Quella volta però, grazie al navigatore, giunsi fino a Semiana senza problemi.

I colori autunnali diedero un tocco di desolazione al paese; ogni strada era ricoperta dalle foglie gialle e rosse cadute dagli alberi. Per raggiungere la locanda bisognava percorrere una stretta via accanto alla piazza.

Provai molta agitazione a parcheggiare la macchina di fronte; con passo lento mi avvicinai alla porta, ma proprio nel momento in cui stavo per toccare la maniglia, mi bloccai. Come mi sarei presentato? Cosa le avrei detto? Arretrando, decisi di raccogliere qualche idea. Per ripararmi dal vento gelido chiusi i bottoni della mia giacca nera, ma non servì a niente. Infreddolito andai a sedermi sopra una panchina della piazza. Dalla tasca dei pantaloni presi il cellulare : nessuna chiamata senza risposta. Per evitare che qualcuno mi avrebbe chiamato lo spensi.

Basta; fui convinto di alzarmi e aprire quella maledetta porta, altrimenti il mio viaggio non sarebbe servito a niente. Raggiungendo l’ingresso inspirai profondamente. A pochi centimetri dal mio viso la porta si aprì  :

“Bentornato…”. Non potevo credere a ciò che vidi; anche se erano passati tanti anni la sua bellezza rimase intatta.

“C-ciao Carol… scusami se piombo qui, ma…”.

“Ti ho visto dalla finestra di sopra e sono scesa”.

Le mie paure svanirono : sembrò davvero entusiasta di vedermi.

“Vieni…”. Disse chiudendo la porta alle spalle e scendendo i gradini.

“Andiamo a fare quattro passi, mamma è appena rientrata e non voglio che ti veda. Sai, lei è una donna un po’ all’antica”.

Affetto da mutismo accettai. Passeggiammo per tutto il paese, parlando come se ci fossimo visti il giorno prima. Quando giungemmo nelle campagne, osservammo in silenzio i campi immersi nella nebbia.

Nonostante facesse freddo, Carol indossava solamente un maglioncino nero sbottonato sul petto. Il lungo vestito a quadretti le scopriva le gambe dalle ginocchia in giù.

“Fantastico”. Pensai osservando la pettinatura : portava ancora le trecce come la prima volta che venni a Semiana. Ai piedi calzava delle ballerine nere ormai intrise di fango e terriccio.

“Sapevi che sarei venuto?”. Le chiesi appoggiandole una mano sulla spalla destra.

“Sì… me lo sentivo che un giorno saresti tornato. Non sai quanta gioia sto provando ora ad averti qui con me….”. Accarezzandole il braccio mi accorsi che era commossa.

“Carol… in tutti questi anni non ho fatto altro che pensare a te”. La nebbia intorno a noi aveva avvolto ormai ogni cosa.

“Anch’io… non mi sembra vero che tu sia qui”. Rifugiandosi nel mio petto mi strinse forte.    

“Basta ora”. Le dissi sollevandole il mento. “Sono venuto per darti questo”. Quanto mi mancavano quelle morbide labbra bagnate.  

“Dai Cicè, tiriamoci su un po’ il morale. E’ quasi mezzogiorno, andiamo a mangiare qualcosa”.

“E dove?”.

“All’acquamatta. Ti ricordi?”. Durante le nostre giornate insieme gustammo tante specialità in quel ristorante.

“Si…”. La mia proposta le fece tornare un lieve sorriso.

“Forza, andiamo”.

“Aspetta!” Esclamò afferrando tra le mani la parte bassa del vestito a quadretti. “Non posso venire così. Lascia che torni a casa a cambiarmi”.

“Ma dai! Sei stupenda così”. Sapevo che anche il più grande degli elogi non sarebbe servito a farle cambiare idea.

Nei pressi della locanda Carol strinse il mio braccio : “Un attimo. Prendi la macchina e portala sotto casa mia, io passerò da dietro”. Anche se non li avevo mai conosciuti di persona, non dovevo stare molto simpatico ai suoi genitori.

La grande casa bianca a due piani era rimasta esattamente come allora; Carol apparve dalla porta d’ingresso dopo dieci minuti esatti. Rapidamente aprì la portiera e si sedette sul sedile davanti. Il vestito nero era decisamente elegante : presentava un colletto bianco dalle tenere ricamature e le accentuava i deliziosi fianchi.

Rivestì le sue generose gambe con delle calze di nylon nero fumo, mentre ai piedi portava delle scarpe nere a tacco alto. “Questo è il ricordo di mio padre”. Disse accarezzando la medaglietta in oro che portava al collo. “Vedi le lettere? P.P. : Piero Padovani”.  

“T-tuo padre è…”.

“Sì, è successo l’anno scorso.”

“E… come?”. Quello che avevo appena sentito mi gelò il sangue.

“Un tumore ai polmoni”.

“Io… mi spiace”. Le accarezzai la mano delicatamente.

“Ora è passato, ciò che conta è che il suo ricordo sia ancora vivo”.

Durante il tragitto verso il ristorante avrei tanto voluto tirarle su un po’ il morale,  ma non sono mai stato abile in questo genere di cose.

Vidi i suoi occhi lucidi contemplare il volo degli uccelli appena sopra una risaia. “Guarda”. Mi disse puntando l’indice. “Anche loro stanno volando liberi come noi, nessuno li può fermare”.

“Tu ti senti davvero libera?”.

“Quando sto con te sì. Ma che fai piangi?”.

“Non… non ti ho chiesto ancora scusa Cicetta”.

“Non importa. Non ti chiedo di giustificarti, quello che è stato è stato. L’importante è che ora siamo di nuovo insieme”. 
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Profilo Autore: luke676  

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Ho nostalgia della dormita che feci quella notte : sana e riposante senza traccia di brutti sogni; nella mente solamente l’entusiasmo di svegliarmi il mattino dopo per scriverle un messaggio. Ovviamente, questa fu la prima cosa che feci non appena puntai il piede fuori dal letto.

Carol rispose subito; la immaginai nel letto impaziente ad aspettare che mi facessi vivo. Dopo alcuni sms decidemmo di incontrarci al suo paese. In quel periodo, dato che stavo frequentando l’ultimo anno di scuola superiore, non potevo permettermi un navigatore satellitare; scrissi le sue indicazioni sopra un foglietto. Un vero e proprio calvario : arrivai al paese alle 16.00, ovvero un’ora dopo l’appuntamento. Come prestabilito la vidi aspettarmi fuori dall’agriturismo “Cascina Corte Grande”. Di giorno apparve ancora più bella : raccolse i suoi capelli in due lunghe trecce, adottando un leggero trucco ad abbellirle ulteriormente il viso. Indossava uno scialle nero, una salopette e delle scarpe da ginnastica.

“Scusa il ritardo…”.

“Fa niente. E’ colpa mia che abito fuori dal mondo”.

Appena salì in macchina le dissi che Semiana mi piaceva molto; lo trovai il classico paese adatto ad un anima solitaria come la mia. Sarei stato ore ed ore a contemplare le campagne intorno scrivendo racconti e poesie.

“Dove andiamo?”. Le chiesi

“Prima lascia che ti mostri dove sono cresciuta, la locanda Padovani.”

“Hai una locanda?”.

“Si mio padre è il proprietario, sono ormai due anni che ci lavoro dopo scuola”. Lo disse con aria sconfitta, facendomi immaginare il genitore sfruttarla come se non ci fosse un domani.

Le pareti della locanda erano tappezzate con vecchi piatti e padelle oltre alle teste di animali imbalsamati. L’interno era deserto, ma Carol disse che non mancava di certo la clientela desiderosa di gustare le specialità Lomelline. I suoi genitori erano fuori paese e quel giorno le lasciarono le chiavi. Fu davvero entusiasta di mostrarmi la Locanda e mi disse che un giorno l’avrebbe portata avanti nel migliore dei modi.

“Lascia che ti offra una birra…”. Disse toccandomi il braccio.

“Scherzi? Te la pago!”.

“Neanche per sogno!”.

In un attimo si precipitò al bancone e spillò una media chiara.

“Grazie, sei troppo buona”. Lei abbassando gli occhi sorrise; seduta al mio fianco su uno dei tavoli mi osservò berla con sguardo amorevole. Mi rilassai; la sensazione di essere in un locale vuoto in sua compagnia era qualcosa di davvero speciale.

“Avete tante camere sopra?”.

“Cinque camere in tutto…”.

“Sarei curioso di vederne una…”.

Senza parole mi strinse la mano e mi baciò. Facemmo l’amore in una delle piccole stanze al piano superiore; quanto fu bello. Tanto felici, restammo abbracciati nel letto fino a quando non decidemmo di rivestirci e uscire in paese. Quando osservammo il sole tramontare seduti su una panchina mi disse :

“Non sono mai stata felice come ora”.

“Nemmeno io Cicetta”.

“Wow! Mi piace se mi chiami “Cicetta” ”.

“Davvero? Mi è venuto così…”.

Ricordando le immagini di quella stupenda giornata, il silenzio e il vuoto nella casa apparvero stranamente confortevoli. Sdraiandomi sul letto nascosi il viso nel cuscino; anche con la casa deserta ebbi vergogna di versare lacrime. Sfinito e con una sensazione di umido nel corpo, cascai in un sonno profondo.

Appena mi svegliai presi nervosamente una sigaretta dal pacchetto. Affacciandomi al balcone la vista di Piazza Ducale perse il suo fascino; fumando pensai solamente una cosa :  

“No! Non posso…”.

“Non posso… non posso… non posso…”.  
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“Strano”. Pensai nel buio della notte. “La camminata alla Sagra Dell’Oca mi ha sfiancato. Dovrei dormire come un sasso”. Invece di dormire non se ne parlò nemmeno quella notte : i nervi e la mente non vollero sapere di riposare. Quest’ultima batteva spietata sul ricordo di quella sera. Non me ne importava davvero niente di quello che successe?

Non ne ero sicuro; in quei giorni non feci altro che pensare a lei. La mia intenzione non era quella di starci a pensare ancora per molto; dovevo cercare di dormire anche perché mi aspettava il turno del mattino. Poco prima di uscire di casa mi ritrovai alla finestra in compagnia della quarta sigaretta. Entrando in fabbrica pensai se ne era davvero valsa la pena di aver sputato sangue per ottenere un contratto a tempo determinato. Certo, la paga era buona ma i materiali usati irritavano la pelle e gli occhi. E dire che la mia ispirazione era quella di fare lo scrittore, non certo di lavorare a Vigevano in una fabbrica di materie plastiche. La mia giornata fu terribile : le ore passarono veloci, ma le immagini della mente tremendamente lente. Quelle della realtà apparvero sfocate; se non dormivo stavo male. Infatti, rincasando crollai sul letto.

Il giorno dopo a fine turno decisi di non prendere l’autobus : una bella camminata mi avrebbe ricaricato completamente. Volli gustarmi la campagna intorno alla fabbrica, un delizioso angolo di paradiso. La nebbia scese sui lunghi prati verdi coprendo la vista degli antichi alberi. Sporcando le scarpe di fango nella piccola stradina, immaginai le urla di mamma non appena sarei entrato in casa.

 “Ancora due minuti”. Pensai mettendo le mani in tasca. “Ancora due minuti per osservare la natura che c’è fuori da questa maledetta fabbrica”. Il rumore delle automobili, confuso e distante, giunse alle mie orecchie come un ricordo lontano. Sorrisi nell’ avere davanti agli occhi un paesaggio così puro e salutare. “Chissà se le campagne di Semiana sono rimaste uguali”. Di nuovo!  Forse la musica mi avrebbe distratto.

Voltando le spalle allo stupendo paesaggio, camminai veloce verso casa. Niente : nemmeno “Hatred And Disgust” dei Sorrow riuscì a distrarmi. Quando deposi il vinile sulla mensola i miei occhi caddero sul telefono cellulare. Sfogliando la rubrica mi accorsi che non c’era; l’avevo cancellato, spazzato via per sempre. Con noncuranza feci cadere il telefono sul letto senza nemmeno capire se ero triste o felice. Cosa le dissi riguardo la luna?

Ah, sì : “Guarda com’è vicina la luna stasera”.

“Sì”. Rispose lei alzando gli occhi verso l’enorme palla bianca. “Andrà a finire come in quel film dove gli uomini ne vengono risucchiati e sono costretti a viverci per sempre”.

Nessuno sapeva che alle spalle del VisViva vi era un grande prato. I nostri piedi lo calpestarono amorevolmente per purificarsi dal suolo contaminato della discoteca.

La convinsi a passeggiare; non era il massimo essere costretto ad urlare ogni volta che le parlavo. Accettò il mio invito entusiasta, forse non aspettava altro.

“Ti piacerebbe vivere sulla luna?”. Le chiesi camminando nel buio.

“Qualunque posto, importante che non sia questo mondo”. La frase mi commosse leggermente.

“Questo mondo non è degno di una bella ragazza come te”. Abbassando il capo, accennò un risata imbarazzata. Nonostante fossimo al buio si preoccupò di non arrossire.

Avvicinandomi al suo viso le dissi : “Non c’è più considerazione per i sentimenti e per la bellezza, soprattutto una stupenda bellezza come la tua”.

Non mi accorsi nemmeno di aver baciato quelle labbra che tanto desiderai.

“E l’amore…”. Disse lei staccandosi lentamente dalla mia bocca. “L’amore non ha più valore…”.

La baciai ancora più sensualmente accarezzando anche le forme del suo corpo. Sotto quel vestito nero vi erano stupendi attributi da adorare immensamente.

“Sono qui in macchina e…”.

“Sì, così stiamo più comodi”.

Mano nella mano, passammo accanto alle persone come se non esistessero. Arrivati al parcheggio, le mostrai la mia macchina. Il mio corpo già tremava mentre lei si accinse a chiudere la portiera.

“Allontaniamoci da occhi indiscreti”. Dissi mettendo in moto.

Fermai la macchina poco distante dal locale, su di una stradina di campagna completamente deserta. Sotto la luce della spia frontale era stupenda per davvero : sorridendo mostrava un dentatura perfetta, quei tipici sorrisi impossibili da dimenticare. La pelle, deliziosamente pallida, tanto dolce e soffice al tatto. Iniziai a baciarle il collo lasciando scivolare le mani sul petto, mentre le sue andarono ad esplorare molto più in basso. Le labbra le profumavano di ciliegie e la pelle di albicocca, due essenze che a rimembrarle provocano piacevoli sensazioni.

Quanti baci diedi al suo viso candido e quante carezze. Erano soffici carezze per ringraziarla di essere uno stupendo dono della natura. Credo di non aver mai più visto due iridi azzurre fissarmi così amorevolmente. Tutto questo accadde in un ora intensa in cui mi sentii amato per la prima volta in vita mia.  

“E adesso?”. Chiese lei rivestendosi.

“Adesso cosa?”. Risposi sorridendo.

“Sparirai anche tu sulla luna?”.

Risi alla sua domanda : “Perché dovrei?”.

Addentando leggermente il pollice destro non mi rispose subito. La voce le uscì preoccupata : “Stefano, io… non ho mai incontrato nessuno come te. Ti vorrei rivedere ancora…”.

“Ma certo, anch’io. Sei la più bella ragazza che abbia mai visto e anche il tuo animo è fantastico. Mi sento di dirlo anche se ci siamo conosciuti stasera”.

Travolgendomi con un abbraccio disse felice : “Grazie, mi sembra di sognare”. “Domani cosa fai?”. Chiese subito dopo.

“Domani è domenica, credo dormirò tutto il giorno.”

“Non ti andrebbe di vederci?”.

“Certo, magari”.

“Sì, ma c’è un problema”.

“Quale?”.

“Non ho la patente”.

“Poco male, vengo io a… come si chiama?”.

“Semiana…”.

“Ah già! Il tuo numero ce l’ho. Ti scrivo domani”.

“Volentieri. Mi faresti un piacere?”.

“Dimmi”.

“Quando torno dai miei amici facciamo finta che non ci conosciamo, non voglio dire a nessuno quanto sono felice. Vorrei condividere questa gioia solamente con te”.

Poche volte una donna riuscì a farmi restare senza parole : “Va… va bene, come vuoi. Sei… sei fantastica Carol”. Il bacio che le diedi prima di ritornare alla discoteca sembrò non terminare mai.

“Ci sentiamo domani allora? Eccoli i miei amici, mi sa che devo andare”. Puntò il dito verso una combriccola di persone che uscì dall’ingresso. “Non vedo l’ora di domani, scrivimi quando vuoi. Grazie di tutto Stefano”. Un ultimo bacio, questa volta sulla guancia.

“Ciao… a domani, Carol”.

“A domani. Non vedo l’ora”.

Un po’ dispiaciuto la vidi allontanarsi. Non feci in tempo ad accendere una sigaretta che ricevetti una forte pacca sulle spalle.

“Ma dove cazzo sei finito? E’ un ora che ti cerchiamo!”. Lino era decisamente alticcio.

“Ero… a bere”. Risposi con sguardo assente.

Lino non prestò molta attenzione alle mie parole, il suo obiettivo era quello di divertirsi e festeggiare fino al mattino dopo.

Poco prima di lasciare il locale mi venne la tentazione di scriverle un messaggio.



Sperando fosse ancora sveglia le confessai che avevo passato la più bella serata della mia vita e altre smancerie che mai più scrissi a nessuna donna. La sua risposta arrivò giusto quando convinsi gli altri a tornare a casa. “Grazie di tutto anche te”. Lessi felice. “Dopo tanto tempo mi addormenterò felice, è stata una serata magnifica. Ti abbraccio e bacio tutto. A domani. Carol”.

“Allora andiamo o no?”. Borbottò Tano dai sedili posteriori vedendomi maneggiare il cellulare.

Guidai verso casa come un forsennato, tra le battute dei miei amici palesemente ubriachi. Sospettarono fin dall’inizio che conobbi una ragazza, ma per rispetto verso Carol non dissi niente. Non mi è mai piaciuto vantarmi delle mie conquiste e tanto meno volli farlo in quel momento. 
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Profilo Autore: luke676  

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Era guardare l'oceano dal terzo mondo, sensazione di stelle, di vita, di nuova vita. Scommettere tutto per raggiungere la costa opposta, senza conoscere la meta, senza sapere se per arrivarci morirari squartato da uno squalo o dall'ansie nel vedere onde immense a due passi da te, pronte a deglutirti intero. ricordo lo sfiorare la sua sabbia la prima volta, il vento la accarezzava in vortice caldo freddo, caldo freddo, e lei ovviamente non lo sentiva, ero io a sentirlo, e lo sentivo tutto, il mio corpo sudava caldo freddo, caldo freddo. Fu stupendo veder danzare quei chicchi in giravolte, capriole, salti in aria e  fu ancor più stupendo quando il vento fattosi cupido portò a me quella sabbia che mi sfiorò appunto,mi toccò, mi sorrise, mi entrò dentro tutto d'un fiato come il negroni che non mi ero affatto sorseggiato prima di andare li, a osservare l'oceano. Il bello fu che quella danza era solo il velo, cieco e muto, di quello splendore, di quelle onde, di quell'infinità che vedevo racchiusa anche nell'unica goccia che potè sfiorarmi appena la pelle, quando per caso si mosse verso me, che però, mi allontanai per non bagnarmi.

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Profilo Autore: Kahl  

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Di quanti "vorrei ma non posso", è piena la mia vita finora trascorsa. Tanti bagagli disfatti nel mio passato. Vivo un oggi, in cui a malapena mi ci intravedo. Mi intrometto furtivamente nella mia vita; ma è come se non mi appartenesse mai completamente. A volte mi estraneo da tutto ciò che è mio: mi succede perché non posso vivere come vorrei. Tutt'intorno scorgo montagne colorate, dove desidero cogliere fiori, per poterli piantare nei miei enormi vasi, che rimangono purtroppo ancora vuoti. Mi perdo nei cieli azzurri e i miei occhi inseguono colombe che in stormo migrano: ne attendo il ritorno e mentre aspetto, passa il tempo. Vorrei che tutto corresse in fretta e non si fermasse mai e che quello che deve succedere poi,accadesse prima. In un'inesplorata natura incontaminata e su terreni vergini, langue il mio sguardo. Tramonti e libellule si librano virtuose nell'aria ed io convivo con un oggi che non mi consente di prendermi la mia vita. La vorrei tutta da vivere la mia vita. Incuriosita osservo l'andirivieni dei passanti. Quanto è forte in me il desiderio di seguirli, ma devo fermarmi sempre prima di svoltare l'angolo. Da una finestra, ferma su una seggiola o su un dondolo vivo tutto il mio limite. Non un convenzionale e ipocrita limite, ma il "mio" limite. A mezz'aria e prima che finisca il concerto, prima dell'ultima pagina di un libro, prima del finire del giorno, devo sempre fermarmi. Non posso procedere, né contare i miei passi, né lasciare impronte, perché io, non ci sono mai completamente. Sono la metà di tutto o un semplice albero piantato nel terreno. Dal mio tronco si dipartono forti braccia, che si ricoprono, nonostante tutto, di verdi foglie. Continuo a spingere la mia carrozzella per vedere meglio, ma non posso guardare oltre: la panoramica ristretta non me lo consente. Ma quando i miei occhi si assopiscono e sognano, allora libero tutte le mie fantasie. Fra fuochi d'artificio  concludo il mio volo e lascio cadere la mia seggiola. Gioiosa vedo le lucenti rotelline roteare libere e allora vado. Mi introduco in un treno che mi invita ad entrare in un cilindro luminoso. È il mio treno. Chiedo al conducente di portarmi a vedere tutto ciò che è visibile e poi procedo. Vado dove posso leggere fino alla fine tutti i miei inizi, mai portati a termine. Ma poi apro gli occhi e la realtà mi si presenta severa e questo mi angoscia. Ritorno a quel brutto giorno e ci sei tu e rovisto nei miei ricordi. Viaggiavamo spesso, ed insieme ci sentivamo i conquistatori del mondo. I tuoi grandi occhi celesti, lasciavano che mi tuffassi in un mare di promesse. -"stavolta sarà magica, te lo prometto"- me lo ripetevi spesso ed io mi allargavo in un largo sorriso di approvazione. Poi su per le montagne e giù per le valli. Quante soste in nome del nostro amore -"fermiamoci" mi ripetevi. "Ho voglia di te" e così fra i cicalecci dei grilli e mille promesse ci amavamo. Durante uno dei nostri viaggi, decidemmo di piantare la tenda in un ameno spiazzo rurale e la notte come sempre, fu spettatrice e complice dei nostri commenti amorosi. Tu ed io felicemente innamorati e il mondo ai nostri piedi. Mi svegliai dopo un sonno stranamente profondo e tu non eri accanto a me. Uscii dalla tenda e ti trovai lì riverso per terra, con uno stupido ramoscello fra le mani e il fornellino da campo ancora acceso. I tuoi occhi chiari guardavano il cielo, ma tu eri altrove. Seguitavo a chiamarti ma eri andato via. Non c'eri più. E il nostro futuro? E tutte le promesse e i domani pieni di noi..? Mi conforta il saperti in un mondo parallelo, dove un giorno forse, continueremo ad amarci. Il mio enorme senso di colpa non mi lascia tregua. Continuo a rimproverarmi di non essere intervenuta in tempo. Se mi fossi svegliata prima, forse sarei riuscita a strapparti alla morte. Vivo in un appartamentino di periferia e Adelina, un'amica di famiglia si prende cura di me e mi esorta a reagire, ma io sono rimasta lì, accanto a quel fuocherello acceso. Talvolta, nel silenzio della mia stanza muovo qualche passo. Si cammino, ma continuo a farlo di nascosto. Le pareti e l'arredo tacciono ed io non potendo, né volendo fare null'altro, attendo che tu ritorni nei miei sogni, per poter continuare assieme a te il nostro viaggio. Nessuno ha notato di quanto mi si è arrotondato il ventre. Per quanto ancora potrò nascondermi? Prima o poi dovrò svelare a qualcuno il mio segreto! Ma una notte forti dolori mi strappano al sonno. Grido con tutto il fiato che ho in gola-:"Adelina presto, chiama un taxi e avverti mamma e papà, il bimbo sta per nascere" - "chi signora, cosa?" mi risponde la poveretta interdetta - "il bambino. Sto per avere un bambino!"- urlando e  camminando m'avvicino alla porta e Adelina, guardandomi come fossi una miracolata, balbettando e con la voce rotta dalla commozione, a malapena riesce a dire: "Ma lei cammina signora. O mio Dio. Miracolo", ripete concitata, poi si profonde in confuse spiegazioni telefoniche; alternando preghiere a segni della croce e perdendosi a tratti, in mariane congetture. Poi sei nato. Tre chili e cento di maschietto. Amore mio. Non ti vedo ma so che sei qui: ti sento. Rammento il ramoscello fra le tue mani e solo ora ne comprendo il significato. Un giovane virgulto doveva prendere vita e la fiammella accesa era la speranza in un domani tutto da vivere. So che in questo momento mi sei accanto, con tutto l'amore di cui sei capace. Avverto un leggero soffio e mi pare di ascoltare quella parolina che  tanto mi piaceva e che spesso mi ripetevi. Una sola, meravigliosa, stupenda parola, che mi rendeva orgogliosa e mi invogliava a dare il meglio di me stessa.Mi carezzo le orecchie e so che sto sfiorando le tue labbra: le sento vibrare e sussurrare uno stupendo, meraviglioso:"Grazie." Fra poppate, pannolini e notti insonni, la mia vita continua ed io cammino, corro e poi ritorno a camminare. Quanto sono forti le mie gambe ora! Essendo i miei primi passi, mi volto compiaciuta a guardarne le impronte impresse nella sabbia e mi commuovo pensando che fra non molto seguiranno tanti meravigliosi passettini, disegnati dai piedini del mio fantastico bimbo.
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Profilo Autore: Giovanna Balsamo  

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